L’Università è il luogo dove si insegna a muoverci in un labirinto di segni. Ma come unire le curiosità intellettuali con i bisogni della vita? Il problema se lo era posto in questi termini Friedrich Nietzsche nel 1871 in una conferenza sull’avvenire delle scuole, cogliendo la contraddizione moderna tra idealismo e positivismo, tra una cultura “viziata, eterea”, lontana da una precisa finalità pratica e una cultura “servitrice del bisogno, del guadagno, della necessità”.
Non penso al Sessantotto, all’idea che l’Università dovesse essere soltanto statale, gratuita e per tutti, con voto positivo agli esami generalmente assicurato, e quindi col risultato inevitabile di un suo impoverimento, data l’incapacità di pensare, e realizzare, qualcosa di generale, equo e condiviso, di alto valore; penso all’Università degli ultimi decenni – alle facoltà umanistiche, quelle che conosco – appiattita su adempimenti burocratici di controllo e adeguamento quasi totalmente passivo alle esigenze del mercato e della produzione di beni e servizi. Una svolta che mi ha spinto a chiudere il mio rapporto di lavoro con cinque anni di anticipo.
L’Università dovrebbe invece intercettare i cambiamenti, ma anticipare i trend, fornire un’immagine insieme di avanguardia e di tradizione, di ottimizzazione dell’esistente e di tensione costante verso i processi di cambiamento, la fornitura di concetti e strumenti di base ravvivati da un sano confronto di idee, parametri e visioni. Ma adesso non aspettatevi nessuna analisi dei cosiddetti mali dell’Università, meno che mai del necessario equilibrio tra Università pubblica e privata, in discussione in Italia dalla legge Casati del 1859, né dell’autonomia degli atenei, delle carriere del personale docente, del numero chiuso per certe Facoltà con test di ingresso, né dei meccanismi di finanziamento o di reclutamento del personale.
In quarant’anni di insegnamento nell’Università, dal 1973 al 2013, ho capito che esiste un tabù nel territorio accademico, un tabù difficile da affrontare: nel mondo universitario è difficile, quasi impossibile, perfino proibito, parlare di contenuti (meno che mai, metterli in discussione). E poi vi sono altri due temi cruciali che io allora avvertivo, e che ora magari si presentano in modo differente: primo, la difficile conciliabilità tra esigenze della didattica ed esigenze della ricerca; secondo, la mancata regolare comunicazione tra mondo della docenza e mondo amministrativo degli atenei. Quindi mi prendo la libertà di parlare di contenuti, avendo avuto la fortuna di insegnare Semiologia generale (col nome poi di Semiotica), applicandola all’universo dei linguaggi e dei racconti, dei miti e delle fiabe, e infine della comunicazione, dei media, della televisione e anche del cinema, concludendo con la fondazione di una televisione universitaria, tra le prime in Europa, nel 2003, e con la direzione di un master di giornalismo, dove il mio personale undicesimo comandamento consisteva nella risposta a questa domanda dai pesanti risvolti etici: “Come affrontare, che cosa farsene del pensiero degli altri?”
Ho vissuto una piccola rivoluzione, a partire dal 1986, all’Università di Torino dove un coraggioso e lungimirante professore di retorica classica, Adriano Pennacini, preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, lanciò un nuovo indirizzo di studi che nel 1992 sarebbe approdato al corso di laurea in Scienze della Comunicazione, negli anni successivi la famigerata fabbrica di disoccupati, oggetto di svariate ironie anche nella cinematografia italiana. Un corso innovativo in cui le materie linguistiche affiancavano quelle sociologiche, quelle economiche le storiche, e anche l’informatica, un corso prima attivato a Torino, Siena, Salerno, e poi a Bologna e a Roma con il coinvolgimento decisivo di Umberto Eco e di Tullio De Mauro. Allora noi pochi docenti eravamo giustamente trascinati dall’entusiasmo, circondati dalla diffidenza dei colleghi ma con un seguito enorme di iscrizioni che ci avevano portato a dover tenere le lezioni nei grandi cinema della città davanti a un pubblico di centinaia di studenti.
La semiologia si godeva la sua aura provocatrice: anche con i miei corsi su Sherlock Holmes, sul simbolo della porta, sul doppio e il personaggio diviso, sulle strutture narrative nella fiaba e nella letteratura, sui fondamenti teorici apportati tra secondo Ottocento e primo Novecento dal filosofo pragmatista statunitense Charles S. Peirce e dal linguista ginevrino Ferdinand de Saussure, ma soprattutto con l’enorme influsso che aveva allora la Morfologia della fiaba del russo Vladimir Propp: testo scritto nel 1928, poi in quegli anni lanciato dall’antropologo francese Claude Lévi-Strauss, era sicuramente il saggio più venduto dall’editore Einaudi. Intanto Umberto Eco continuava a stupirci e incantarci con i suoi modi caleidoscopici, con i suoi ragionamenti incandescenti.
Molti di noi avevano vissuto un Sessantotto non soltanto di cortei, seminari autogestiti, scontri più o meno diplomatici, in un difficile periodo, gravato da forti conflitti sociali e anche dal terrorismo. C’erano, tra i nostri docenti, importanti linguisti e filologi italiani, come Gian Luigi Beccaria e D’Arco S. Avalle, Cesare Segre, Maria Corti, avevamo potuto incontrare e dialogare con i linguisti più importanti dell’epoca, primo fra tutti il grande Roman Jakobson che aveva introdotto negli studi il famoso modello delle funzioni linguistiche, mostrando i ruoli di mittente, destinatario, codice, canale, messaggio, contesto.
Dagli studi di Charles Peirce avevamo acquisito uno speciale modo di pensare ai processi di significazione e comunicazione scanditi in primità, secondità e terzità: e cioè l’impatto con i dati della esperienza, poi il confronto tra di loro e infine il necessario passaggio nella dimensione dell’interpretante, il livello più complesso in cui la comunicazione veniva trasformata in qualcos’altro, vale a dire nei segni più complessi atti alla comprensione e alla traduzione tra tutti gli attori che intervengono nello scambio comunicativo. Molte volte in questi giorni ho pensato che i processi di pace che si volessero avviare e gestire con negoziati dovrebbero avvalersi delle modalità pragmatiche di Peirce, integrandole se è il caso con la concezione dell’esperienza di cui ha parlato di John Dewey, dove si cerca di porre in equilibrio una certa visione generale delle cose con una congruente abilità organizzata di azione.
Sarebbero poi arrivati gli apporti scientifici al mondo semiotico da parte di Algirdas Greimas e Jurij M. Lotman, la significazione avrebbe investito l’intero orizzonte della produzione e gestione del senso, in tutte le più svariate attività, mostrando il legame tra orizzonte cognitivo, simbolico e discorsivo. Sino alla concezione di Lotman della semiosfera, dove la cultura non è più acquisizione di conoscenze ma consapevolezza e padronanza di valori, tradizioni, capacità di traduzione e adattamento, generazione di interdipendenze, superamento continuo di dati acquisiti.
Inevitabilmente ritengo la scuola e l’università i luoghi in cui si producono dialoghi, si moltiplicano le frontiere e si riducono i confini, in cui l’orizzonte formativo che si sta affrontando verrà inevitabilmente superato, e molto di quello che si sta imparando e vivendo diventerà insieme anacronistico e fondamentale. Come qualsiasi esperienza della vita che abbia senso, o che semplicemente lo cerchi.
[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]
Affascinante.
Grazie!