mercoledì 3 Luglio 2024

Il doppio cervello: qualità e quantità

Gli studiosi di comportamento animale potrebbero dire che l’intelligenza, oltre che capacità di adattamento, è imprevedibilità: più un animale è intelligente, meno prevedibilmente si comporta. David Ritchie, quarant’anni fa, in Il doppio cervello (Edizioni di Comunità) spiegava così perché l’uomo, a cui mancano zanne poderose, armi naturali come le spine del riccio, che emana odori così forti che qualsiasi carnivoro saprebbe rintracciarlo in un attimo, l’uomo che è un corridore modestissimo rispetto al ghepardo, l’uomo, che ha un udito scarso rispetto a molti altri animali, è riuscito egualmente a sopravvivere. Se lo ha fatto, è grazie al potere della mente.

Ma l’intelligenza dell’uomo ha portato al paradosso per cui egli ha costruito macchine che non soltanto gli risparmiano i compiti più faticosi o banali, oppure potenziano la sua intelligenza, ma la sostituiscono, per cui sarebbe lecito pensare che la stessa intelligenza umana possa portare o alla propria distruzione o a un nuovo passo evolutivo: “per la prima volta nella storia della vita”, osserva Ritchie, “una specie sta compiendo coscientemente e deliberatamente il passo successivo della propria evoluzione“.

E questo passo comporterebbe, ad esempio, che si sia delegato a sistemi esperti il quadro delle nostre motivazioni ad agire e delle nostre intenzionalità, sapendo essi determinare ciò che spinge le persone ad agire come agiscono.

Fu von Neumann a spiegare come e perché il flusso d’informazioni stia sorpassando la nostra capacità di tenergli dietro. Perché la nostra intelligenza possa continuare a funzionare, dico io, occorrono sistemi di rallentamento.

Ritchie, nel 1982, vedeva invece con favore i biochips, interfacce che possano modulare le informazioni che ci sommergono, quando invece, ovviamente, semplicemente le controllerebbero, rendendoci definitivamente eterodiretti, determinati da centri remoti e occulti di potere.

“Le possibilità che si prospettano sono mirabili. Si potrebbe infilare la spina nella memoria del computer con la stessa facilità con cui ci s’infila le scarpe. Di colpo, la nostra mente si riempirebbe… potremmo diventare tutto d’un tratto degli esperti di qualsiasi materia…”.

Ecco la distopia al lavoro, quella che ti fa immaginare di imparare l’inglese dormendo invece che viaggiando, che ti fa illudere e quindi deludere, invece che convincere, quella che alimenta il sogno di una potenza senza limiti dovuta alla convinzione che la quantità di informazione sia di per sé un bene.

A mio parere è più fruttuoso puntare sul rallentamento, sulla “mente tartaruga”, piuttosto che sul “cervello lepre”. Alla guerra sostituire la mediazione, all’impulso la meditazione, senza ovviamente rendere l’istinto e l’intuito schiavi della ragione.

Tornare dunque a fiutare, a leggere il cielo, a cogliere sensazioni non tangibili, a far lavorare l’anima, affiancare la filosofia alla matematica, sapere usare utensili manuali, cucinare i pensieri senza farli bruciare, bere con attenzione al gusto, senza bersi qualsiasi cosa. Il doppio cervello, insomma, quello però che continua a tenere distinta, come il grande Aristotele, la qualità dalla quantità.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

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