Nel sud della Nigeria, un oleodotto gestito da Eni è esploso provocando una vasta fuoriuscita di greggio. L’incidente ha interessato il sito di Nembe della joint venture locale Nigerian Agip Oil Company. I pozzi collegati all’impianto sono stati immediatamente chiusi e sono stati messi in atto i sistemi di contenimento. Sull’esplosione non sono stati forniti ulteriori dettagli, ma certo è che si tratta del secondo incidente avvenuto nel giro di pochi giorni. Un episodio simile è stato infatti registrato il 28 febbraio presso l’impianto di Obama. È stato così necessario interrompere temporaneamente il flusso delle esportazioni: quelle giornaliere, complessivamente, sono state ridotte di 30 mila barili. E per giustificare il calo nell’export petrolifero dalla Nigeria, sia Eni che Shell hanno fatto ricorso alla clausola di “causa di forza maggiore”. Nel mentre, i pescatori residenti nei villaggi limitrofi lamentano le conseguenze negative delle frequenti fuoriuscite di greggio nella zona. «Ogni volta che ciò avviene – ha denunciato Noel Ikonikumo, presidente di un sindacato locale di pescatori – le nostre reti e gli altri attrezzi da pesca si impregnano di petrolio e non possiamo più usarli perché l’odore allontana i pesci. Abbiamo scritto alle compagnie interessate perché ci ascoltino e ci aiutino, ma non abbiamo ricevuto alcuna risposta».
Quel che si sospetta – a detta del direttore della National Oil Spill Detection and Response Agency – è un atto di vandalismo. Sebbene forse, considerato il contesto, sia più idoneo chiamarlo atto di rivolta. Tra le multinazionali del petrolio e le comunità locali – in Nigeria così come in altri Paesi notoriamente sfruttati per fini estrattivi – non corre buon sangue. Un conflitto impari che va avanti ormai da oltre 80 anni dove a rimetterci sono l’ambiente e l’economia di sussistenza delle popolazioni in via di sviluppo. Ma è proprio facendo leva sulla promessa di portare ricchezza che i colossi fossili si sono insediati nel Continente africano ma, dopo quasi un secolo, quel che emerge è solo speculazione ed inquinamento. Tra tutte, l’area del Delta del Niger è quella più martoriata, da quando, nel 1956, vennero scoperti i primi giacimenti. In prima linea nello sfruttamento della zona, la Shell, che controlla circa la metà del sito, seguita da Total, Chevron ed Eni. Un territorio un tempo incontaminato, ora letteralmente colonizzato, sull’onda della corruzione, dai giganti petroliferi.
Le perdite di greggio, causate da centinaia di chilometri di tubature vecchie ed usurate, sono all’ordine del giorno. Ad oggi, sono oltre 36 mila i km² di aree naturali invasi dal petrolio. Così, secondo un rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, le popolazioni locali utilizzano quotidianamente acqua proveniente da pozzi contaminati dal benzene, i cui i livelli di tossicità sono 900 volte superiori alle soglie di sicurezza fissate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Discorso analogo per l’aria. Questa è contaminata dai gas, prodotti di scarto delle estrazioni petrolifere, che dal 1985 vengono bruciati a cielo aperto per rendere l’estrazione del petrolio molto più veloce ed economica. Negli ultimi anni, però, qualcosa sta cambiando. La Shell, ad esempio, è stata già condannata a risarcire le comunità devastate, mentre lo stesso governo nigeriano ha ritirato ad Eni una grossa licenza petrolifera per sospetta corruzione. Questo non porrà di certo fine ad ogni sfruttamento e non ripristinerà le terre distrutte, ma almeno si spera che le pressioni internazionali ed una maggiore attenzione per l’ambiente guidino un significativo cambio di rotta in Africa come altrove.
[di Simone Valeri]
La causa principale non sono le tubature vecchie ma i tentativi di rubare il petrolio lungo il tragitto delle tubature stesse.