La Casa Bianca ha riunito 30 tiktoker per illustrare gli interessi strategici americani relativi alla guerra in Ucraina. Lo ha rivelato recentemente un report del The Washington Post, il quale ha spiegato nei dettagli che l’Amministrazione Biden si sia appoggiata all’associazione Gen Z For Change per selezionare dei top “content creator” utili a portare la narrazione USA sul noto social network. Una iniziativa che non è una prima volta, ma una riedizione di quanto già recentemente messo in campo al fine di invogliare gli utenti del web a vaccinarsi.
Tenendo conto che le generazioni più giovani siano solite a tenersi informati perlopiù attraverso i canali internettiani, i Governi – ma anche le aziende – di tutto il mondo hanno velocemente compreso che non sia più sufficiente affidare la propria comunicazione a conferenze stampa ingessate o a testate giornalistiche di stampo arcaico. In questo caso, gli obiettivi sono cristallini, ovvero contrastare la propaganda russa con una contro-propaganda a stelle e strisce.
Il Cremlino, dal canto suo, non ha certamente mancato di scomodare gli influencer per promuovere la sua visione di quell’“operazione speciale” di liberazione che ha molto in comune con una più prosaica invasione militare. Mosca è peraltro ben rodata nell’intasare la Rete con la guerra dell’informazione, tant’è che in passato aveva persino consolidato vere e proprie “fabbriche” di meme internettiani. Pur senza scavare troppo a fondo, è facile però rendersi conto che le celebrità dei social media siano ormai parte integrante anche delle strategie propagandistiche di Beijing e dell’Arabia Saudita. Persino il Ministero alle Politiche Giovanili italiano aveva preso in considerazione nel maggio 2021 di avviare un’”operazione giovani” mirata a smuovere dalle reticenze gli under-30 dubbiosi nei confronti della campagna vaccinale.
Inutile altresì fingere ingenuità: i vip, la cultura e lo sport sono da sempre megafoni perfetti per la diffusione di messaggi di natura politica. Elvis Presley era divenuto il volto statunitense della lotta alla poliomielite, la CIA ha imposto il proprio dominio sull’arte contemporanea degli anni ’50 e Riyadh si mostra progressista colonizzando fino al 2027 la scena del wrestling WWE, giusto per fare qualche esempio.
Allo stesso tempo, è comunque allarmante che questo trend politico abbia investito anche la sfera degli influencer. Come suggerisce il fosco appellativo di marketing con cui questi individui vengono fregiati, il loro scopo è perlopiù – se non esclusivamente – quello di “influenzare” atteggiamenti e consumi dei loro follower creando canali d’intrattenimento che simulano rapporti amicali tra autore e utente. In questo contesto, i confini tra informazione promozionale e opinioni disinteressate sfumano fino a diventare indistinguibili, anche perché sia i protagonisti dei social che le aziende che li foraggiano preferiscono non esplicitare l’eventuale passaggio di soldi. L’efficacia del product placement e della pubblicità occulta si basa sull’illusione della spontaneità, dopotutto.
L’influencer medio è estremamente abile nel sapersi vendere, ma non è detto che questi sia dotato degli strumenti o della rigidità deontologica utile a contrastare le propagande e a rifiutare contratti commerciali dai retroscena controversi. Non bisogna però fare di tutta l’erba un fascio: ascoltando la registrazione del briefing illustrato dalla Casa Bianca ai content creator è possibile incappare in soggetti che effettivamente muovono al Governo statunitense dei quesiti legittimi e che meriterebbero risposta, ma che sono frustrati da feedback fiacchi che sanno più di comunicato stampa che di confronto vero e proprio. D’altronde, all’Amministrazione Biden non interessa certamente chiarire i dubbi, come per i suoi omologhi gli è sufficiente trasferire le proprie narrazioni a coloro che, per stessa ammissione della Casa Bianca, hanno un «pubblico più vasto di molti organi di stampa».
[di Walter Ferri]