Un documentario avvincente e toccante di 90 minuti co-diretto dagli irlandesi Garry Keane e Andrew McConnell girato a Gaza durante i conflitti e le sanguinose proteste in un arco di tempo che va dal 2014 al 2018 e presentato in anteprima al Sundance Film Festival di Salt Lake City nel 2019. Vivere durante la guerra? Per quanto incredibile, è possibile. Il popolo della Striscia di Gaza lo fa da anni, chiuso in questo piccolo lembo di terra affacciata sul mar Mediterraneo che spesso viene definita una prigione a cielo aperto. Le frontiere con i Paesi confinanti, Egitto e Israele, sono chiuse, la libera circolazione delle merci strettamente controllata e ostacolata, l’energia elettrica, in molta parte fornita da Israele, insufficiente, il limite delle acque territoriali è di sole tre miglia. Tutto questo fa ben capire quali siano le difficoltà di un popolo che vuole semplicemente vivere e nei brevi momenti di tregua di una guerra continua, lavorare e dare una parvenza di normalità alla sua esistenza. La realtà di Gaza non può essere considerata solo in un contesto puramente politico o analizzando solo i conflitti che ce la mostrano con immagini di violenza, caos e devastazione, ma va anche compresa la vita di chi vi abita cercando di esplorare la ricca diversità sociale e le sottigliezze culturali che un mix eclettico di quasi due milioni di persone, di cui più della metà rifugiati, può creare.
Il fotografo Andrew McConnell e il regista documentarista Garry Keane hanno realizzato un interessantissimo documentario che ci mostra si, anche momenti di tensione e scontro, ma principalmente si sofferma sulle vicende degli uomini, delle donne, dei tanti bambini e dei ragazzi, analizza la loro vita quotidiana soffermandosi sulle reazioni, a volte sorprendenti, che hanno nell’affrontare tanta difficoltà. Piccoli artigiani e imprenditori, che non sanno mai se potranno finire un lavoro per la continua mancanza di energia elettrica o i pescatori che ritirano le loro reti semivuote a causa del breve tratto di mare cui è consentito loro di pescare. Artisti e musicisti che attraverso l’arte cercano uno spiraglio di serenità, ragazzi che non sono certi di poter andare a scuola il giorno dopo, bambini, talvolta colpiti e feriti che sperano comunque nella vita e in un futuro migliore.
Un documentario di ampio respiro, colorato e armonioso ma paradossalmente e allo stesso tempo crudo tanto da trasformarsi sul finale in un vero e proprio reportage di guerra, rendendo bene l’idea di un continuo clima di tensione emotiva, dove tutto può cambiare improvvisamente, dove il sibilo di un missile, seguito da un esplosione, scatena in un giorno apparentemente sereno, guerriglie urbane, copertoni incendiati, colonne di fumo nero e sassaiole. Appaiono i lancia razzi i kalashnikov e le molotov, palazzi distrutti e macerie, feriti, urla strazianti, sirene di ambulanze, disperazione, caos e morti soprattutto tra i più giovani e gli ospedali da campo rapidamente sostituiscono i luoghi di svago e di lavoro.
Far comprendere una realtà così dicotomica non è semplice, ma i due autori ci riescono perfettamente facendoci capire quanto l’essere umano sia più adattabile di quanto si pensi e che il desiderio di sopravvivenza unito alla ricerca di libertà e giustizia lo guidino verso la sperimentazione di schemi diversi di vita. Le immagini e le parole dei personaggi, ci portano nella dimensione intima di un luogo unico per lo più sconosciuto e ignorato dai reportage istituzionali e rivelano un mondo ricco di suggestione e resilienza offrendo uno sguardo rigoroso su esistenze costrette a confrontarsi con un conflitto perenne. Una rara opportunità, questa, per immergerci nel cuore di Gaza e in quello dei suoi abitanti, rivelando un potente mosaico di forte umanità.
[di Federico Mels Colloredo]