Futilitarismo: Neil Vallelly, autore del libro Vite rubate – Dal sogno capitalista al futilitarismo, conia questo neologismo per indicare la condizione nella quale verte l’uomo moderno. Figlio del capitalismo e dell’utilitarismo, il futilitarismo imbriglia il soggetto nelle maglie della propria rete e lo spinge ad mettere in atto azioni futili, atte al solo fine del guadagno monetario e non al perseguimento del bene sociale. Nel suo libro, in uscita oggi nelle librerie italiane, Vallelly accompagna il lettore in un viaggio attraverso la storia che mostra come la società sia arrivata a questo impasse, ma come sia anche possibile uscirne. Ritenendo che possa essere di grande interesse per i nostri lettori, pubblichiamo in esclusiva un estratto del libro, edito da Blu Atlantide.
“Nel lungo periodo, i neoliberisti hanno vinto la partita. La stagnazione economica e le crisi politiche degli anni Settanta hanno delegittimato la logica keynesiana, e Hayek e la cabala neoliberale della scuola di Chicago ne hanno approfittato per imporre il loro paradigma alternativo, grazie al sostegno di politici di spicco negli Stati Uniti, nel Regno Unito e altrove. Il violento rovesciamento del governo socialista di Salvador Allende in Cile nel 1973 segnò l’inizio del neoliberismo come realtà politica, e lo stesso Hayek divenne presidente onorario di un think-tank che sovrintese alla trasformazione del Cile in un’economia neoliberale sotto la dittatura di Augusto Pinochet. Mentre i neoliberisti attaccavano lo Stato keynesiano, principalmente a livello economico, quello stesso Stato stava subendo una forte critica sociale anche da sinistra da parte di coloro che lo consideravano un dispensatore di normatività sociale e culturale. Per alcuni critici del neoliberismo, questa nuova critica sociale simboleggia l’ambigua eredità delle rivolte del maggio del 1968. Harvey ha sostenuto che «per quasi tutti coloro che erano coinvolti nel movimento del ’68 lo Stato, con la sua invadenza, era il nemico e doveva essere riformato; e su questo i neoliberisti potevano facilmente concordare». Allo stesso modo, Alain Badiou ha concluso, nel quarantesimo anniversario delle rivolte del maggio ’68: “Si commemora Maggio ’68 perché il suo vero risultato, il vero eroe di Maggio ’68, è il capitalismo liberale nella sua massima espressione. Le idee libertarie del ’68, la trasformazione dei costumi, l’individualismo, il gusto del godimento, trovano il loro compimento nel capitalismo postmoderno e nel suo variegato universo di consumismi d’ogni genere”.
Ma come ha illustrato Kristin Ross nel suo indispensabile libro May ’68 and Its Afterlives (‘Il maggio ’68 e le sue molteplici vite’), la lettura dei moti di maggio semplicemente come nascita di un nuovo individualismo è retrospettiva e riduttiva, e ignora la lunga genesi che quei moti hanno avuto nelle proteste contro la guerra d’Algeria e nei vari scioperi operai nel corso degli anni Sessanta.
Boltanski e Chiapello implicano che il nuovo individualismo emerso negli anni Settanta ebbe a che fare tanto con la risposta governativa e capitalistica al maggio del 1968 quanto con la logica culturale monolitica delle rivolte. Essi notano che in Francia la risposta del governo alle rivolte comportò concessioni sui salari e sulla sicurezza sociale come tentativo di «smorzare la lotta di classe». Ma queste concessioni fecero lievitare i costi per le imprese, il che, insieme alle crisi economiche dei primi anni Settanta, spinse i capitalisti a cercare soluzioni innovative per tagliare i costi, soprattutto perché «il livello della critica con cui si confrontavano non sembrava diminuire nonostante le concessioni fatte». Di conseguenza, le imprese hanno sviluppato nuove forme di organizzazione del lavoro, «che si presentano come un’accumulazione di piccole evoluzioni e piccoli cambiamenti [che] hanno avuto l’effetto di svuotare, pur senza abrogarle, un gran numero di disposizioni del diritto del lavoro». E come mostrano Boltanski e Chiapello, questi sviluppi hanno attinto a un solo aspetto del movimento del 1968, ossia la «denuncia dell’oppressione quotidiana e dell’atrofizzazione dei poteri creativi dei singoli prodotte dalla società industriale e borghese». Successivamente, «la trasformazione delle modalità del lavoro si è […] realizzata in gran parte per rispondere alle loro aspirazioni, tanto che sono stati chiamati a parteciparvi, soprattutto dopo l’avvento della sinistra al potere durante gli anni Ottanta». L’ascesa di un nuovo individualismo non fu una conseguenza inevitabile del movimento del 1968, concludono Boltanski e Chiapello, ma fu invece un effetto degli sforzi profusi dai capitalisti per ridurre le energie collettive del movimento alla mera sete di autonomia individuale e per costruire un nuovo modello di produzione attorno a questa sete. All’inizio degli anni Ottanta, osservano Boltanski e Chiapello, «l’autonomia è stata scambiata con la sicurezza, aprendo la strada a un nuovo spirito del capitalismo incentrato sulle virtù della mobilità e dell’adattabilità mentre il precedente si articolava in termini più di sicurezza che di libertà». La condizione futilitaria è emersa proprio in questo frangente storico, in cui i capitalisti hanno colonizzato le rivendicazioni della sinistra anticapitalista, producendo un nuovo spirito capitalista che celebrava l’autonomia economica e sociale dell’individuo.
Il concetto di massimizzazione dell’utilità rimane parte integrante del neoliberismo – come discuterò nel dettaglio nel capitolo 6 nel contesto della pandemia di Covid-19 – perché gli individui sono incoraggiati e persino costretti a rendersi utili per sopravvivere. Ma se il neoliberismo è utilitaristico dal punto di vista della richiesta di massimizzazione dell’utilità – laddove l'”utilità” è definita dai datori di lavoro e dalle imprese – non è certamente utilitaristico nei suoi effetti. Indubbiamente, l’idea che la massimizzazione dell’utilità possa portare al benessere della maggioranza – per quanto sia sempre stato un mito – è ormai svanita del tutto nel XXI secolo. La condizione futilitaria traspare e prolifera quando l’utilitarismo rimane la giustificazione del capitalismo, nonostante il fatto che la massimizzazione dell’utilità sia ormai completamente slegata dal principio di felicità generale.
Il neoliberismo garantisce l’autonomia ponendo la scelta individuale e la flessibilità alla base dell’economia di mercato. Ma questa autonomia compromette la sicurezza sociale che anche utilitaristi quali Bentham e Mill vedevano come un aspetto fondamentale per garantire il principio della massima felicità. Il neoliberismo genera semplicemente le condizioni per l’autonomia, indipendentemente dal fatto che una maggiore autonomia renda felici o meno gli individui. E, come esemplificano le enormi disuguaglianze sociali, la precarietà onnipresente e le depressioni e le ansie di massa della nostra epoca, il neoliberismo genera principalmente infelicità nella maggioranza delle persone. A questo proposito, Franco “Bifo” Berardi fa un’osservazione molto puntuale: «I padroni del mondo non vogliono certo che l’umanità possa essere felice, perché un’umanità felice non si lascerebbe intrappolare nella produttività, nella disciplina del lavoro o negli ipermercati». Perché mai la felicità dovrebbe essere il fine ultimo del capitalismo se quella stessa felicità potrebbe minacciare l’accumulazione di capitale?
Questa domanda riflette l’irriducibile contraddizione tra autonomia e libertà che ossessiona la condizione futilitaria. Per quanto il neoliberismo abbia fatto propria la bandiera dell’autonomia, la verità è che la maggior parte di noi oggi contribuisce alla macchina del capitale senza alcuna possibilità di sfuggire ai suoi tentacoli. Anche il nostro tempo libero è colonizzato dal capitale della sorveglianza. Come sosteneva Marx, «nella libera concorrenza, non gli individui, ma il capitale è posto in condizioni di libertà». La libertà, insisteva Marx, è un’illusione che il capitalismo imprime nella vita umana; ma esso utilizza anche le aspirazioni individuali alla libertà per liberare il capitale dai vincoli della vita sociale. I neoliberisti hanno perseguito aggressivamente questa dualità sostenendo che l’unico modo in cui gli esseri umani possono essere veramente liberi è collocare il mercato al centro di tutti i loro sforzi, liberalizzando al tempo stesso la sfera del lavoro e quella sociale, sapendo che gli esseri umani (certamente la maggioranza degli esseri umani) e il mercato non possono essere contemporaneamente liberi. Wendy Brown osserva che «la rivoluzione neoliberale si svolge nel nome della libertà – liberi mercati, paesi liberi, uomini liberi – ma distrugge il fondamento della libertà nella sovranità sia per gli Stati che per i sudditi». Il trucco qui, come sottolinea Byung-Chul Han, è che «il capitale sviluppa bisogni propri, che per errore percepiamo come nostri». Crediamo che la libertà che desideriamo possa essere raggiunta attraverso la nostra capacità di liberare il capitalismo da ogni costrizione – e di liberarci dalle nostre relazioni con gli altri – ma questo il più delle volte si traduce in forme di autosfruttamento e di non libertà.
Il soggetto della condizione futilitaria è certamente autonomo, ma solo perché questa autonomia alimenta il mercato. Essere autonomi significa essere incatenati a una libertà molto più volatile, che spesso offusca la distinzione tra libertà e precarietà. Ci viene
costantemente ripetuto di essere noi stessi, di celebrare la nostra unicità, di commercializzarci come diversi dagli altri, di condividere i nostri pensieri come se fossero ascoltati da qualcuno. Allo stesso tempo, ci viene detto che dobbiamo contare su noi stessi, essere flessibili e resilienti, e considerare le nostre condizioni sociali ed economiche come riflessi delle nostre caratteristiche individuali. Questo è il prezzo dell’autonomia nell’era neoliberale. La grande ironia è che questo non è il mondo che i pensatori neoliberali avevano immaginato alla metà del XX secolo. Le idee di Hayek, Milton Friedman e dei Chicago Boys erano, in teoria, mirate a proteggere la libertà economica dell’individuo all’interno dell’ordine di mercato neoliberale. Ma gli effettivi processi materiali della neoliberalizzazione hanno reso futile anche questo insidioso ideale. Le forme di autonomia individuale emerse all’inizio del XXI secolo non sono perfezionamenti della teoria neoliberale, ma mutazioni di questa teoria in un’ideologia ancora più discutibile come conseguenza della prassi neoliberale. È individualismo senza libertà; individualismo come merce; individualismo come sorveglianza; individualismo come dati; individualismo come narcisismo; individualismo o muerte.
I vantaggi dell’uso del termine “futilitarismo” o “condizione futilitaria” per definire questo individualismo pervasivo derivano dal fatto che richiamano direttamente la futilità esistenziale che permea la vita del XXI secolo. Quando ci troviamo di fronte alle vere calamità della nostra epoca – crescenti disuguaglianze, cambiamenti climatici, crisi dei rifugiati, pandemie mortali – ci troviamo contemporaneamente di fronte alla nostra futilità
nell’affrontare questi problemi. Ma è una futilità di cui spesso non siamo neanche coscienti. Anzi, molti di noi finiscono per ripiegare su singoli atti di (non) resistenza: sostituire le buste di plastica con la borsa di stoffa, fare una donazione a un’associazione umanitaria ecc. Ma l’ombra della futilità si staglia su ogni nostra azione, e lo sappiamo. Per sostituire questa presenza ossessionante, ci diamo pacche sulle spalle per i nostri atti di filantropia, celebriamo e incoraggiamo la nostra autonomia reciproca e continuiamo a illuderci di essere soggetti etici che si prendono cura del nostro pianeta. Ammettere che le nostre azioni sono futili significa ammettere che siamo stati ingannati dal capitalismo, che i nostri desideri di autonomia individuale sono stati usati contro di noi per rinchiuderci ancora di più negli spasimi del realismo capitalista.
Questa futilità non riflette un nostro fallimento personale, ed è forse la paura che possa essere così che ci impedisce di riconoscerla appieno. La futilità esistenziale è piuttosto l’esito logico del rapporto storico tra utilitarismo e capitalismo. L’utilitarismo ha sempre portato con sé la possibilità del futilitarismo, in quanto era inevitabile che gli aspetti dell’etica utilitaristica che vanno a vantaggio dell’accumulazione sfrenata del capitale avrebbero finito per mettere in ombra qualunque nozione di benessere sociale, come è successo in modo spettacolare quando i neoliberisti hanno vinto la battaglia ideologica del XX secolo. In quanto membri della generazione neoliberale, oggi subiamo le conseguenze devastanti della metamorfosi dell’utilitarismo in futilitarismo. Il mio obiettivo nel resto del libro non è solo illustrare come si manifesta il futilitarismo nella società contemporanea, ma anche gettare le basi per l’emergere di una nuova politica che possa confrontarsi con la logica distruttiva del futilitarismo”.