La struttura commissariale dell’Ex Ilva ha presentato alla Corte d’assise di Taranto un’istanza di dissequestro degli impianti dell’area a caldo dello stabilimento siderurgico pugliese. La richiesta, avvenuta in amministrazione straordinaria, verrà valutata dallo stesso organo giudiziario che nel giugno del 2021 inflisse, nell’ambito del processo “Ambiente Svenduto”, 26 condanne (tra dirigenti della fabbrica, manager e politici) per un totale di 270 anni di carcere. All’interno della sentenza venne poi disposta sia la confisca (per equivalente) di 2,1 miliardi di euro nei confronti di Ilva Spa, Riva fire e Riva forni elettrici sia la confisca degli impianti dell’area a caldo, in continuità con la decisione del gip Patrizia Todisco di porre sotto sequestro la struttura nel 2012. Secondo i legali dell’Ex Ilva, nel corso degli anni successivi al sequestro diversi interventi strutturali avrebbero “significativamente modificato l’assetto impiantistico operativo”, eliminando quidi i “rischi per la collettività e per l’ambiente” che ora non sarebbero più presenti “neppure allo stadio potenziale”.
Già nei primi anni 2000 la nuova normativa comunitaria, ispirata a una logica di “sviluppo sostenibile”, e la crescente sensibilità dell’opinione pubblica in tema ambientale misero in luce il problema della nocività delle emissioni di diossina e benzo(a)pirene in atmosfera da parte degli stabilimenti di Genova e Taranto. Il primo venne chiuso nel 2005 e il secondo posto sotto sequestro nel 2012, salvo poi essere riaperto all’inizio dell’anno successivo, nonostante le Direttive europee indicassero tutt’altra direzione. Dopo la riapertura degli stabilimenti, si registrarono nuove denunce da parte di cittadini e ONG, a causa delle esalazioni inquinanti provenienti dall’acciaieria. A quegli anni risale una perizia che mise in luce l’influenza delle emissioni industriali sulla salute degli abitanti di Taranto, attribuendo all’inquinamento proveniente dagli stabilimenti dell’Ex Ilva la causa di 30 decessi, 18 casi di tumore maligno, 19 eventi coronarici e 74 ricoveri ospedalieri per malattie respiratorie (in gran parte bambini) ogni anno. Tutti eventi che avrebbero potuto avere esito differente, se solo le istituzioni fossero intervenute all’interno di un territorio che già a partire dagli anni ’70 mostrò inevitabili segni di insofferenza, dovuta all’incompatibilità fra tessuto urbano e un polo industriale di elevate dimensioni come quello dell’Ex Ilva. D’altronde, il finanziamento di 400 milioni di euro da parte della Banca europea per gli investimenti (BEI) alle aziende coinvolte nella gestione degli impianti lasciò intendere già nel 2012 come la priorità fosse “la competitività internazionale e l’occupazione” piuttosto che la salute pubblica.
Il 26 settembre 2013 la Commissione europea inviò all’Italia un avviso di messa in mora, invitandola ad adeguarsi alla nuova Direttiva 2010/75/UE (Direttiva IED) sulle emissioni industriali e i grandi impianti di combustioni. Le prove di laboratorio, eseguite per conto della Commissione europea, evidenziarono un forte inquinamento dell’aria, delle acque e del terreno di Taranto riguardante sia l’area industriale dell’acciaieria sia le zone abitative adiacenti (in particolare il quartiere di Tamburi). Oltre alla mancata trasposizione della Direttiva IED nei termini prescritti, la Commissione europea rilevò anche l’assenza di controlli e di interventi delle autorità italiane sul corretto funzionamento dell’impianto Ilva. Ciò spinse l’organo sovranazionale nel 2014 a inviare al Governo italiano un parere motivato, strumento volto a far allineare gli Stati membri alla legge comunitaria, con il quale segnalò diverse infrazioni: mancata riduzione dei livelli di emissione generati dai processi di produzione dell’acciaio, insufficiente monitoraggio del suolo e delle acque reflue, inosservanza delle condizioni stabilite per le AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) dalla Direttiva IED. Nel frattempo, il 15 maggio 2017, fu avviato il procedimento innanzi alla Corte d’assise di Taranto per disastro ambientale, avvelenamento da sostanze chimiche e associazione a delinquere, noto come “Ambiente svenduto”.
Contemporaneamente, cittadini e associazioni tarantine si rivolsero alla Corte Europea dei diritti umani (Corte di Strasburgo) accusando i vertici dell’Ilva di crimine contro l’umanità. Cinque anni dopo, alla notizia della richiesta di dissequestro degli impianti, abitanti e organizzazioni di Taranto hanno manifestato la loro incredulità. Il comitato “Cittadini e lavoratori liberi e pensanti” ha scritto sui propri profili che “solo pensare queste cose è pura follia ma metterle nero su bianco in una richiesta di dissequestro è un’azione criminale perché significa negare l’evidenza dei continui “incidenti” che in questi anni si sono verificati”.
[Di Salvatore Toscano]