Il 6 aprile 2020, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in Campania, gli agenti della polizia penitenziaria commisero atti violenti ai danni dei detenuti provocando anche la morte di uno di loro: come documentato da un video proveniente dalle telecamere di sicurezza della struttura, infatti, quel giorno le forze dell’ordine diedero vita ad un vero e proprio pestaggio di gruppo. Manganellate, calci, pugni, testate, persone inermi stese a terra brutalmente picchiate: sono queste le violenze che si verificarono nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Una vera e propria mattanza che gli agenti scatenarono quasi per vendetta, dato che il giorno precedente i detenuti avevano inscenato una protesta per la situazione all’interno del carcere in relazione alla pandemia da Covid-19. Così, a metà dicembre 2021 è iniziato il processo che vede 108 imputati – tra agenti della Polizia penitenziaria e funzionari del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) – accusati a vario titolo di: tortura, lesioni, abuso di autorità, falso in atto pubblico e cooperazione nell’omicidio colposo del detenuto algerino Lakimi Hamine (addebitato a 12 individui). Nell’attesa che la giustizia faccia il proprio corso, però, recentemente un ex detenuto del carcere ha inviato una lettera all’associazione Yairaiha Onlus in cui ha raccontato l’esperienza da lui vissuta in prima persona. Di seguito, riportiamo integralmente il testo in questione.
“Sono un ex detenuto di Santa Maria Capua Vetere del reparto Nilo (che ormai si è fatto conoscere a tutti, anche da chi prima non lo conosceva). Il mio primo ingresso in un carcere è stato a Santa Maria Capua Vetere, avevo sbagliato e dovevo scontare la mia pena. Sono entrato a novembre, diciamo prima della pandemia. Anche se nei paesi lontani qualcosa si sentiva dire, nessuno immaginava a cosa si stava andando incontro. Nel mese di febbraio si sentiva, anche nel nostro paese, di 900 morti al giorno; e nelle carceri, vedendo come la pandemia cresceva sempre di più, la paura era molto grande. Sapevamo che al di fuori di quelle mura c’era una pandemia chiamata Covid-19. La paura cresceva sempre di più: le mascherine non c’erano e anche i vaccini, ancora in fase di sperimentazione, da noi sarebbero arrivati molto tardi. Ad aprile nel reparto Tamigi un detenuto è risultato positivo e la notizia si è diffusa in fretta. Nel reparto abbiamo chiesto di poter parlare con la commissaria ma, visto che lei non veniva, abbiamo fatto mancato rientro; verso le 20.30 la commissaria si è, allora, presentata dicendo che il giorno dopo avremmo fatto i tamponi e che ci avrebbe portato le mascherine. Quella sera siamo rientrati in cella. Il giorno dopo verso le 9:20 siamo scesi al passeggio fino alle 10:35. Dopo l’una c’era il passeggio, abbiamo chiesto l’orario: è passato l’appuntato a dire che, chi aveva gli occhiali, li doveva togliere. Dalle altre sezioni abbiamo cominciato a sentire grida, però mai avremmo pensato cosa stava succedendo. Dopo un paio d’ore di grida e rumori, anche nella sezione in cui mi trovavo, vediamo arrivare degli appuntati con caschi, manganelli e scudi. Cominciano a chiedere “chi è T.” e vanno verso la cella 11 dove si trovava il detenuto T. Da dove stavo io sentivo solo le lamentele di T. e dopo dieci minuti vedo che lo stanno trascinando per terra. Era svenuto per quanto si vedeva. Sentivo solo gli appuntati che dicevano “Adesso tocca a voi”. Solo dopo ho visto che, lungo il corridoio, su entrambi i lati c’erano tantissimi sbirri. Un numero preciso non si poteva dire, però potevano essere minimo 150. Poi c’era il famoso Antonio Fullone, il provveditore, che entrava nelle celle con 10 appuntati: prima loro ti picchiavano e poi il provveditore ti chiamava e ti domandava “da dove vieni?” e cominciava con i pugni. Diceva “adesso esci” e quando uscivi in corridoio c’erano tutti gli appuntati che dicevano “abbassa la testa e non guardare nessuno in faccia”. Quando arrivavi in saletta ti aspettavano gli altri e là nessuno si poteva muovere. Poi dopo un’ora in saletta c’erano sempre gli stessi con i caschi, manganelli e scudi in mano. La schiena e la testa non riuscivo a sentirle più dalle botte che avevo preso. Quelle ore di inferno non passavano più. Quando di sera sentiamo il carrello dell’infermiera e ci siamo avvicinati al cancello chiedendo di essere visitati, lei diceva “lei è in piena salute”. Il capoposto diceva “nessuno scenda in infermeria e nessuna avrà niente più che la sua terapia. Qui comandiamo noi”. Quella sera abbiamo dormito con la paura. E di mattina dovevamo fare le videochiamate con i nostri cari però le guardie ci dicevano che le videochiamate erano eliminate. Durante le chiamate alla famiglia le guardie venivano e dicevano di non raccontare quello che era successo altrimenti avrebbero sospeso le telefonate. Nonostante questo qualcuno è riuscito a raccontare alla propria famiglia. Anche se si è saputo fuori quello che è successo, davanti a noi trovavamo sempre gli stessi appuntati e nessuno al di fuori delle mura faceva quello che doveva fare. Ancora oggi vedo persone come Antonio Fullone e Michele detto Poggioreale che sono ancora liberi anche se Fullone è stato il primo ad entrare nelle celle e a mettere le mani sui detenuti. Fino a quando queste persone saranno fuori dalla galera questa non sarà giustizia. Non dico che le persone devono essere arrestate tutte, ma chi sbaglia deve pagare. Adesso sono un po’ lontano dalla casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere e posso raccontare”.
[di Raffaele De Luca]