Nello scorrere del tempo, nella sua immagine fluviale si nasconde il numero, la successione, la durata, l’ordine. Dato che il tempo scorre, diventa necessario misurarlo, scandirne il corso, i passaggi. Dagli ordinamenti celesti e planetari alla articolazione in giorni, alle convenzioni nella suddivisione in mesi e in anni.
Per il tempo è nell’andare avanti, nel generarsi delle forme la sua ragion d’essere. Il tempo è irreversibile, proprio come il torrente che si può arginare con una diga, rallentare con degli sbalzi, incanalare nel percorso, deviare ma non far scorrere al contrario, tant’è vero che il procedere delle acque verso la sorgente costituiva nell’antichità un adùnaton, un impossibile.
Paradossale allora la scrittura, narrativa o cinematografica, che nel suo avanzare tenta invano di rincorrere il tempo, sa di non riuscire a tener testa al suo farsi e disfarsi, e quindi deve compiere dei salti per inseguirlo, fare scatti all’indietro e in avanti.
Gli accadimenti, meno che mai i pensieri, non accettano una descrizione che li esaurisca, essi devono riservarsi un margine di banalità o di sorpresa, d’incompiuto o d’incognito fondandosi o su passaggi scontati o su orizzonti plurali che devono ancora chiarirsi e che nella loro molteplicità possibile producono attenzione, incertezza, tensione.
Al tempo non basta un asse cartesiano, non basta incernierarsi con lo spazio. Prima di tutto, allora, è necessaria una psicologia del tempo, una decisione concernente la posizione e l’attesa che ogni soggetto assume di fronte a ciò che accade, nella realtà o in una qualsiasi rappresentazione.
L’ansia, ad esempio, sino alle declinazioni della suspense, ha una matrice religiosa, è la dea del solstizio d’inverno, si affaccia nei giorni più corti dell’anno, negli ‘angusti dies’, è quell’angustia che dà poi ‘angst in tedesco, un senso di chiusura, di soffocamento, di risposte che non arrivano.
Lo spettatore, ad esempio, sente che i tempi si accorciano, che tutto si accelera, che c’è qualcosa che non si lascia pienamente comprendere, che c’è bisogno di una svolta, ma teme che lo svelamento arrivi troppo presto, che il solstizio del film stringa d’assedio il senso, lo concluda in maniera non attesa, pur rispettando la logica di un’armonia che si ripete.
Quest’ansia, questa suspense, questa contrazione del divenire l’antica Roma la custodiva con il silenzio, con la dea Angerona, dalla bocca bendata o con un dito sulle labbra. Un silenzio connaturato all’origine stessa del cinema, alla sua natura fantasmatica.
Il tempo non soltanto scorre ma passa, appare sempre presente, si fa pre-sentire, avvertire, anzi preavvertire, ma in realtà è subito passato, è andato attraverso, è finito in una specie di setaccio, di colino che lo separa immediatamente da qualcos’altro: il tempo viene macinato.
Passare al vaglio, screening, ‘passare’ non è soltanto del prima e del poi, passare è appunto vagliare, ‘lasciar passare’ al vaglio, separando il fine dal grezzo, il sottile dallo spesso, il liquido dal denso; ‘passare’ è filtrare, montare immagini e suoni, costruire sequenze, decidere, in ultima analisi, ‘affermare’, ‘non negare’, ‘permettere’, ‘non impedire’. Il tempo e il lasciapassare appartengono allo stesso mondo semantico: il filtro, il tornello, la scheda magnetica, ciò che mette in relazione, accettando o rifiutando.
Il tempo dà il suo assenso, separando il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, il prima dal poi, il passabile dal non accettato, il presente dal futuro, il qui ed ora dall’altrove e dal dopo.
Così il tempo, pur restando reale, diventa pensiero. E la durata diventa rappresentazione
[di Gian Paolo Caprettini]