Nelle scorse ore la Turchia ha lanciato una nuova offensiva militare contro i curdi presenti in Iraq, in particolare nei confronti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), organizzazione attiva in territorio turco e iracheno che rivendica l’indipendenza dello “Stato mai nato”. Aerei da guerra, artiglieria e truppe di Ankara hanno attaccato così diversi obiettivi nel nord dell’Iraq, dai campi ai depositi di munizioni, nella zona del cosiddetto Kurdistan iracheno, una delle cinque regione abitate dall’etnia curda. Essa gode di una certa autonomia politica dal 2012, quando venne riconosciuta come regione federale del Paese. L’altro territorio che ha acquisito uno status simile è Rojava, conosciuto anche come Kurdistan siriano. Nel silenzio dei Paesi occidentali, entrambe le regioni sono vittime delle offensive turche (come nelle scorse ore, quando i raid aerei hanno colpito anche Hasake, in Siria) perché rappresentano delle esperienze di autonomia e confederalismo democratico che alimentano la volontà di indipendenza da parte dei curdi-turchi e due pilastri su cui potrebbe fondarsi il futuro Stato, riconosciuto a livello internazionale, del Kurdistan.
I curdi rappresentano il quarto gruppo etnico più popoloso (su circa 50) del Medio Oriente, subito dopo i turchi, i persiani e gli arabi. Si tratta del popolo più esteso al mondo a cui non è riconosciuto dalla comunità internazionale alcun territorio. Infatti, i curdi sono dislocati prevalentemente in cinque Paesi: Iraq, Iran, Turchia, Siria e Armenia, formando (con una popolazione di circa 25 milioni di persone) l’area che prende il nome di Kurdistan, termine che anticamente indicava proprio la regione geografica abitata dal gruppo etnico. Nel corso della storia, i curdi hanno subito diverse persecuzioni su larga scala, soprattutto lungo la direttrice religiosa, dove il fronte sciita si è reso protagonista di violenze e abusi nei confronti della popolazione mesopotamica (sunnita), tanto in Siria quanto in Iran e Iraq. Si ricordi, ad esempio, il genocidio dell’Anfal compiuto dall’esercito iracheno durante gli ultimi anni della guerra col vicino Iran, che tra il 1986 e il 1989 ha causato la morte di decine di migliaia di curdi, con stime che variano dalle 50.000 alle 180.000 persone.
In questo scenario di persecuzione e violenza si inserisce la Turchia, coinvolta nel “conflitto curdo-turco” a partire dal 1978, anno delle prime grandi manifestazioni del gruppo etnico presente nel Paese, che rappresenta oggi il 20% della popolazione totale (circa 15 milioni di persone). L’oggetto del conflitto è la richiesta di indipendenza del Kurdistan, avanzata prevalentemente dal Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), organizzazione attiva in Turchia e in Iraq considerata terroristica dal presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, così come dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, nonostante i tentativi di diversi gruppi di protesta di convincere quest’ultima a rimuovere il partito dalla lista dei Paesi e organizzazioni terroristiche e considerarlo una legittima forza politica di resistenza. Negli anni, la valutazione in termini ostili del PKK ha portato Erdogan, nell’indifferenza generale, a muovere diversi attacchi nei confronti dell’organizzazione politico-paramilitare, come nel 2019 o nei giorni scorsi. A questi, si aggiungono le accuse e gli arresti nei confronti dei membri del Partito Democratico dei Popoli (HDP), formazione politica che unisce forze filo-curde e di sinistra presente in Parlamento con 62 seggi su 600. La settimana scorsa la polizia ha fatto irruzione nell’ufficio dell’HDP nella città di Cizre, nel Kurdistan turco, arrestando cinque membri del partito. Negli ultimi mesi, in questo clima di tensione, le forze di Ankara avrebbero usato anche delle armi chimiche, almeno secondo le denunce avanzate dal Partito dei lavoratori curdi, che ha invitato più volte le organizzazioni internazionali a indagare sulla questione.
L’obiettivo di Erdogan è di non permettere una riunificazione riconosciuta ufficialmente del Kurdistan, il che implicherebbe la presenza di un nuovo Stato nella parte orientale della penisola anatolica. L’indifferenza odierna da parte della comunità internazionale verso questi attacchi stride con l’atteggiamento adottato qualche anno fa, quando i curdi sono stati i principali attori sul campo nella lotta al terrorismo, supportati da diverse potenze, una su tutte gli Stati Uniti. Tra il 2015 e il 2016 i guerriglieri curdi, in particolare il Partito dell’Unione Democratica (PYD) e il PKK che condividono l’obiettivo finale di un Kurdistan indipendente, riuscirono a fermare l’avanzata dell’ISIS, contribuendo alla sua momentanea sconfitta. In quei mesi, i membri del PYD riuscirono a riconquistare i propri territori (Rojava o Kurdistan siriano), occupati precedentemente dallo Stato Islamico.
Dopo essere stati alleati del mondo occidentale, i curdi si ritrovano oggi attaccati dalla Turchia (membro NATO) e abbandonati dagli Stati Uniti, ripetendo una storia vissuta già lo scorso secolo nei mesi successivi alla fine della Prima Guerra Mondiale, quando furono traditi dalle promesse degli europei. Il trattato di Sèvres (1920) venne firmato per dividere i territori dell’appena decaduto Impero ottomano. Al suo interno era prevista la nascita di una Turchia con ingerenze straniere nella penisola anatolica e l’apertura verso la nascita di uno Stato curdo e dell’Armenia, che è arrivata all’indipendenza soltanto nel 1991 passando attraverso diverse fasi discriminatorie e violente, tra cui il genocidio perpetrato dall’Impero ottomano durante la Prima Guerra Mondiale che costò la vita a più di un milione di armeni. Il movimento dei giovani turchi si oppose a questa nuova suddivisione e così il trattato di Sèvres venne sostituito da quello di Losanna (1923), da cui nacque una Turchia omogenea, priva di ingerenze straniere e senza tracce di Armenia e Kurdistan.
[Di Salvatore Toscano]
Se i crimini a commetterli è un Paese Nato si chiude un occhio.