In Indonesia, i pescatori locali stanno contribuendo in maniera importante al contrasto della distruttiva pesca illegale: negli ultimi anni, infatti, il governo sta incentivando questi ultimi – così come altre comunità costiere – a formare gruppi che si occupino di pattugliare le loro acque. Si tratta di un lavoro oltremodo necessario in quanto l’area marina dell’Indonesia, che contiene una varietà di pesci di barriera corallina maggiore rispetto a qualsiasi altra parte del mondo, viene messa in pericolo da tale attività, che senza l’aiuto delle persone del posto non potrebbe essere ostacolata in maniera efficace. I pattugliamenti istituzionali infatti non riescono a contrastare in maniera impeccabile il fenomeno a causa delle limitate risorse a disposizione: basterà ricordare che, secondo l’Unione dei Pescatori Tradizionali Indonesiani (KNTI), i tagli al bilancio del ministero della pesca che vi sono stati negli ultimi anni hanno tra l’altro portato ad una riduzione del tempo totale di monitoraggio, sceso da 270 giorni del 2015 ad 84 giorni nel 2019.
Uno scarso pattugliamento che preoccupa in maniera particolare per quanto riguarda l’arcipelago indonesiano di Raja Ampat, situato al centro del “Triangolo dei coralli”: un’area (che si trova nelle acque marine tropicali di Indonesia, Malesia, Papua Nuova Guinea, Filippine, Isole Salomone e Timor Est) che contiene almeno 500 specie di coralli in ogni ecoregione e migliaia di specie di pesci. Come sottolineato da un documento pubblicato sul sito ScienceDirect, infatti, nel solo 2006 le catture illegali e non dichiarate nell’arcipelago avevano superato quelle dichiarate di oltre 40mila tonnellate, minacciando così “la sostenibilità a lungo termine della pesca e quindi i mezzi di sussistenza nella regione”. Non a caso, dunque, tale pratica è stata anche accusata dai pescatori locali di causare un calo delle catture di pesce e di rappresentare un grande pericolo per la tutela delle risorse ittiche.
Nello specifico, a minacciare Raja Ampat sono metodi come la pesca esplosiva e la pesca al cianuro, diffusisi nelle acque dell’arcipelago a partire dagli anni ’80 in risposta alla crescente domanda commerciale di frutti di mare. A testimoniarlo sono stati alcuni membri della comunità locale a Mongabay, che è appunto andato alla ricerca delle persone offertesi di proteggere le loro acque. «Si potevano sentire le vibrazioni» ha infatti affermato la 33enne Esterlita Jabu – che vive sull’isola di Raja Ampat “Mutus” – ricordando le esplosioni provocate dai pescatori nel suo villaggio di appartenenza durante la sua infanzia. Esterlita Jabu ed altre 19 persone del villaggio da marzo 2020 si sono dunque offerte volontarie come membri di “Pokmaswas”, uno dei gruppi gestiti dalle comunità locali con lo scopo di aiutare a pattugliare le loro acque. I gruppi Pokmaswas si trovano in tutta l’Indonesia ed attualmente, grazie ad un’iniziativa del governo iniziata nel 2001, sono quasi 3000. Sull’isola di Mutus, però, 9 di essi si distinguono in quanto creati grazie ad una sovvenzione dell’Indonesia Climate Change Trust Fund (ICCTF), un fondo fiduciario lanciato dal governo, ed attualmente in fase di registrazione presso il ministero della pesca, cosa che aiuterebbe a sostenere le loro pattuglie e coprire le relative spese.
Si tratta di un rimborso evidentemente dovuto in quanto Mongabay, che ha parlato con alcuni dei membri di gruppi Pokmaswas, ha fatto sapere che sono state segnalate zero violazioni della pesca regolare da quando i gruppi sono stati formati e che Syafri, il responsabile della gestione del Raja Ampat Islands Marine Conservation Park (letteralmente il “Parco di Conservazione Marina delle Isole Raja Ampat”), ha affermato che le pratiche di pesca illegale e distruttiva sono diminuite del 70-80% negli ultimi tre anni. Il tutto anche grazie al lavoro di tali gruppi, che segnalano le potenziali attività di pesca illegali alle autorità facilitandogli il lavoro. I volontari, dotati di attrezzature come binocoli, walkie-talkie e fotocamere, effettuano i pattugliamenti almeno due volte a settimana in aree non coperte dalle squadre di pattuglia ufficiali. Grazie a delle “torri di monitoraggio a terra”, però, riescono a monitorare la situazione anche al di fuori dei giorni di pattugliamento programmati, contribuendo dunque in maniera notevole al contrasto del fenomeno.
[di Raffaele De Luca]
Quando capiremo che aiutandosi l’uno con l’altro, e che l’unione fa la forza,forse riusciremo a vivere in un mondo migliore dove al comando del paesi non ci saranno i Draghi o Monti di turno…