Superare il consumo di carne per abbattere le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera e coprire una maggiore domanda in vista della crescita della popolazione mondiale è la sfida accettata dalle aziende che negli ultimi anni stanno cercando un’alternativa alle proteine animali. In Italia il dibattito ha subito creato due schieramenti opposti: da un lato, i sostenitori della cosiddetta “carne sintetica”, coltivata in laboratorio; dall’altro, la grande industria delle proteine animali, che definisce il primo prodotto come fake meat, carne finta. Il fronte conservatore può contare sulla presenza di Filiera Italia – l’associazione di industriali e agricoltori che vede tra i promotori Coldiretti insieme a Ferrero, Inalca/Cremonini e Consorzio Casalasco – schierata contro “le multinazionali del cibo sintetico”. Al di fuori del nostro paese, la distinzione diventa meno netta, come dimostrano gli investimenti delle multinazionali della carne nelle alternative coltivate in laboratorio e vegetali, all’interno di un mercato a nove zeri.
A provare l’iniziativa intrapresa dai giganti del settore sono due rapporti recenti: uno di IPES-Food e l’altro dell’organizzazione no profit Food & Water Watch. Al loro interno, vengono citati gli investimenti da parte di Cargill e JBS, rispettivamente l’azienda a controllo familiare più grande del mondo e il colosso della lavorazione della carne, che negli ultimi mesi hanno speso milioni di dollari in attività incentrate sullo sviluppo di proteine vegetali e carni coltivate in laboratorio, rilevando diverse società più piccole. Si tratta di prendere parte a un mercato in continua evoluzione, stimato nel 2020 in 4,2 miliardi di dollari di vendite che potrebbero arrivare alla soglia dei 30 miliardi nei prossimi cinque anni. Nel 2021, JBS ha acquistato l’azienda BioTech Foods e l’impresa olandese Vivera, specializzata in carne vegetale. La Cargill ha investito invece in Aleph Farms, una startup del settore alimentare e tecnologico che ha l’obiettivo di produrre carne partendo da cellule di manzo. Ad oggi, nonostante gli investimenti e l’interesse da parte di imprenditori miliardari (tra cui Bill Gates), il settore è accompagnato da diversi limiti, uno su tutti il rapporto costo/benefici.
Tra la carne coltivata (e vegetale) e la grande industria delle proteine animali occorre segnalare una terza strada: il ritorno al biologico e a un modello produttivo “meno aggressivo”. In un mondo ideale, l’etichetta bio posta su un prodotto significherebbe il rispetto da parte di quest’ultimo di determinate condizioni: nel caso della coltivazione, parliamo di stagionalità e di assenza di prodotti chimici di sintesi. Per quanto riguarda l’allevamento, invece, si parla di alimentazione con mangimi biologici, provenienti da aziende agricole locali, e del non ricorso a trattamenti farmacologici e antibiotici (se non strettamente necessario), come invece accade negli allevamenti intensivi, dove spesso il benessere dell’animale è posto all’ultimo gradino degli interessi degli imprenditori. Tuttavia, negli anni abbiamo assistito a innumerevoli scandali riguardanti questo modo di fare agricoltura, con il risultato di una scarsa fiducia da parte dei consumatori, nonostante la produzione “a rilento” sia meno aggressiva nei confronti del territorio e più rispettosa verso le materie prime.
Nel dibattito incentrato sul ruolo e sul peso della carne all’interno dell’ambiente, va infine citata un’ipotesi già nota in diverse parti del mondo, in particolare nel sudest asiatico, ovvero il consumo di insetti. L’entomofagia va, infatti, oltre al consumo di suolo e di energia legato all’attuale filiera della carne, che potrebbe essere mitigato ma non eliminato del tutto da un eventuale (e difficile) ritorno al biologico. Secondo la Food and Agriculture Organization (FAO) circa 1.900 specie d’insetti sono effettivamente una fonte di cibo a livello globale, con i coleotteri che rappresentano il 31% del totale. Oltre ad avere un impatto positivo sull’ambiente, una dieta così composta potrebbe essere la soluzione alla malnutrizione che colpisce soprattutto i paesi meno ricchi e quelli in via di sviluppo, i principali territori coinvolti, secondo le stime, nell’aumento della popolazione che avverrà nei prossimi decenni.
[Di Salvatore Toscano]
L’utilizzo di alimenti di origine animale di derivazione biologica porta ad un disastroso incremento dell’utilizzo dei suoli, potendo incrementare, data la minor produttivita’ per ettaro, la deforestazione. L’unica vera soluzione e’ la riduzione del consumo di alimenti di derivazione animale; cio’ significherebbe aumentare la resa alimentare in quanto si ridurrebbero le spese energetiche necessarie per ottenere cibo. In zootecnia cio’ e’ ben noto. Infatti ogni specie animale allevata ha un “indice di conversione”, cioe’ il rapporto tra quantita’ di cibo consumato da un organismo animale per crescere e vivere e i chili di cibo animale infine ottenuti. Infatti per produrre, per esempio, un chilo di carne bisognera’ che l’animale macellato cresca, produca escrementi, aumenti anche la massa non commestibile per poter vivere (ossa, connettivi, sangue, etc.), bruci cio’ che mangia per ottenere calore vitale e movimento…l’essere vita implica consumo di energia. Gli alimenti vegetali invece, avendo alle spalle un metabolismo molto piu’ lento consumano molta meno energia per arrivare alla tavola del consumatore. Se e’ irrealistico il poter diventare tutti vegani, lo e’ invece il cercare di ridurre il piu’ possibile il consumo di alimenti di derivazione animale con il risultato di consumare meno risorse del pianeta, inquinare molto meno, proteggere la nostra salute, e per chi e’ sensibile alle altre forme di vita ridurre lo sfruttamento animale.
“Se i macelli avessero le pareti di vetro piu’ nessuno mangerebbe carne” (Lev Tolstoj)