giovedì 21 Novembre 2024

Il Texas approva la legge che vieta la censura su internet

Come in una lotta greco-romana, i tribunali texani si stanno metaforicamente azzuffando in un carnaio di mosse e contromosse pur di far entrare in vigore una divergente legge che mira a tutelare la “libertà di parola” dalla censura dei social media. Ieri la svolta: l’ingiunzione che ne bloccava l’attuazione è stata sospesa, quindi il Texas potrà rivalersi sulle censure imposte ai cittadini dalle Big Tech.

A scuotere gli animi politici è il cosiddetto HB 20, un codice introdotto formalmente l’anno scorso e che era stato prontamente bloccato da un giudice federale. Un brutto colpo per i Conservatori, i quali avevano progettato la legge in risposta ai ban subiti dai propri colleghi di partito per colpa delle loro controverse esternazioni, Donald Trump su tutti. Una censura che sapeva di onta e che è stata dipinta come un vero e proprio affronto al Primo Emendamento.

Il Primo Emendamento, tuttavia, si occupa di tutelare i cittadini dalla censura di Stato e non si applica alle scelte editoriali delle singole aziende. Ecco dunque che HB 20 evidenzia immediatamente i paradossi libertari: da una parte i diplomatici texani sostengono di volere che le aziende possano agire senza incappare nel giogo governativo, dall’altra fanno il possibile perché lo Stato imponga alle imprese regole capaci di tutelarli. Anche a costo di fare carte false.

Per assicurarsi che la legge potesse essere liberata dall’ingiunzione federale, gli avvocati del Texas hanno dipinto i social media al pari di «moderne piazze pubbliche», così da spingere i giudici a rivedere la definizione dei portali in questione, i quali sono passati da “siti internet” a “internet provider”. La variazione di nomenclatura ha garantito per vie traverse l’applicabilità di HB 20.

Un “trucchetto” che permetterà di tutelare la libertà di parola anche all’interno delle piattaforme dei Big Tech, ma che non tutti – nemmeno all’interno delle organizzazioni che si battono per la democrazia – vedono di buon occhio. Il limite da stabilire è quello, ormai annoso, tra diritti individuali e della comunità. Chi vorrebbe un certo grado di controllo sui contenuti, ed eventualmente di censura, cita ad esempio i diversi studi che dimostrano che le parole xenofobe e colme d’odio tipiche delle narrazioni autoritarie non solo finiscono per soffocare le possibilità di espressione delle minoranze, ma le danneggiano direttamente. Un esempio pratico: quando il Primo Ministro britannico Boris Johnson ha comparato le donne che indossano il burqa ai ladri di banche, il Regno Unito ha immediatamente registrato un picco di abusi e violenze anti-musulmane. Chi invece difende la libertà di parola a qualsiasi costo – fosse anche il diritto a scrivere frasi discriminatorie o diffondere notizie false – ritiene che ogni grado di censura costituisca già in partenza una china pericolosa e da contrastare.

Di certo con la legge del Texas si rilancia un dibattito che ci accompagnerà anche nei prossimi anni, con le società occidentali chiamate a stabilire il limite tra la tutela della pluralità delle opinioni e i limiti entro i quali i punti di vista di alcuni sono autorizzati anche ad avere conseguenze negative sugli altri.

[di Walter Ferri]

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