Nella contrarietà ribadita da Recep Tayyip Erdogan all’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO non c’è alcun principio politico legato al mantenimento della pace, ma solo la richiesta di avere le mani libere nel condurre l’altra guerra che sta a cuore al presidente turco: quella contro i curdi in Siria e Iraq. Lo ha fatto intendere senza misteri: «Non abbiamo chiuso le porte all’adesione all’Alleanza, ma stiamo sollevando il problema della sicurezza in Turchia», riferendosi al popolo curdo e in particolare alle organizzazioni, ritenute terroristiche da Ankara, che lottano per l’autonomia del Kurdistan: il PKK (Partito dei lavoratori curdi) e i suoi bracci armati YPG e YPJ, secondo Erdogan «sostenuti apertamente dai due paesi scandinavi» e presenti in Turchia, Iraq e Siria. D’altronde Erdogan in una dichiarazione rilasciata lo scorso 20 aprile era stato chiaro sulle intenzioni che lo guidano: «Prima o poi spaccheremo la testa al PKK». Un disegno che in verità la Turchia sta portando avanti da tempo, bombardando senza sosta i territori curdi in Siria e Iraq e, secondo alcune denunce, utilizzando anche armi chimiche vietate. La contrarietà all’allargamento della NATO appare quindi una mossa di puro opportunismo, pronta ad essere ritirata quando da parte dei partner atlantici avrà ottenuto l’implicito via libera a decapitare quelle stesse organizzazioni curde che, per conto degli occidentali stessi, hanno guidato la resistenza contro l’Isis in Siria.
«Manderemo una delegazione di diplomatici per discutere della situazione con la Turchia e trovare una via d’uscita», ha dichiarato il ministro della Difesa finlandese. Nel momento in cui arrivassero delle garanzie da parte dei paesi scandinavi e, per estensione, dei membri NATO sui punti avanzati dalla Turchia, quest’ultima potrebbe tornare sui propri passi, permettendo l’ingresso nell’Alleanza a Finlandia e Svezia, definiti da Erdoğan come “alberghi per terroristi” poiché accusati di dare asilo ai militanti del PKK e YPG. Negli ultimi mesi, e in particolare da quando gli occhi della comunità internazionale sono puntati sull’Ucraina, la Turchia ha attaccato quasi incessantemente i curdi in Iraq e in Siria, due dei paesi in cui è presente il gruppo etnico, il più esteso (40 milioni di persone) al mondo privo di un proprio territorio riconosciuto a livello internazionale, vittima di violente persecuzioni nel corso della storia. Turchia, Siria e Armenia sono gli altri paesi in cui sono dislocati prevalentemente i curdi. Tra questi cinque stati sorge l’area che prende il nome di Kurdistan, il territorio abitato anticamente dal gruppo etnico al centro di rivendicazioni indipendentiste.
Tra il 17 e il 18 aprile scorso, l’esercito turco ha lanciato un’offensiva contro le basi del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) nel nord dell’Iraq e ha compiuto una serie di raid anche nel Rojava, nel nordest della Siria. Cos’hanno in comune le due regioni? Rappresentano i due territori controllati dai curdi con maggiore autonomia politica. Nel 2012, il cosiddetto Kurdistan iracheno venne riconosciuto come regione federale dell’Iraq. Seguì poi il Rojava, o Kurdistan siriano, che acquisì uno status simile, diventando una regione autonoma de facto e quindi non riconosciuta ufficialmente dal governo centrale. I due territori rappresentano delle esperienze di autonomia e confederalismo democratico che alimentano la volontà di indipendenza da parte dei curdi in Turchia e due pilastri su cui potrebbe fondarsi il futuro Stato, riconosciuto a livello internazionale, del Kurdistan. Per questo motivo rappresentano gli obiettivi principali delle offensive militari lanciate da Ankara.
In Iraq, la Turchia giustifica da anni le sue incursioni sostenendo l’incapacità da parte di Baghdad di impedire al PKK, organizzazione politica e paramilitare nata ad Ankara negli anni ’70 con l’obiettivo dell’indipendenza, di lanciare eventuali attacchi contro il territorio turco dalla regione autonoma del Kurdistan, dove il gruppo ha basi e campi di addestramento. Erdoğan ha garantito pubblicamente di aver ricevuto l’appoggio del governo centrale iracheno per l’attacco del 18 aprile scorso. Poco dopo è arrivata la smentita di Baghdad, che ha condannato l’operazione militare e ha convocato l’ambasciatore turco. “Negli ultimi anni la Turchia sta avanzando sempre più in profondità. Oggi le incursioni si spingono fino a 25 chilometri dal confine, dove Ankara sta costruendo avamposti militari e infrastrutture, pianificando dunque una presenza a lungo termine nella regione”, ha dichiarato Yerevan Saeed, ricercatore dell’Arab Gulf states institute di Washington. L’obiettivo attuale di Ankara è costruire una zona cuscinetto in Iraq, “per garantire la stabilità e la sicurezza del territorio turco”.
Tuttavia, ciò che sta accadendo fa parte di una campagna più ampia, che coinvolge anche la Siria e mira a combattere l’Unità di Protezione popolare (YPG), gruppo armato curdo-siriano che tra il 2014 e il 2016 divenne il principale alleato delle potenze occidentali nella lotta allo Stato Islamico, contribuendo alla sua momentanea sconfitta. L’YPG e la sua unità femminile YPJ, accomunati al PKK dalla voglia di indipendenza del Kurdistan, furono sostenuti in particolar modo da Washington, che ancora oggi mantiene relazioni formali con i due gruppi e nel 2019 si è impegnata per una tregua volta a fermare gli attacchi turchi. A fine aprile, annunciando nuove operazioni in Siria, Erdoğan ha dichiarato che «prima o poi» riuscirà a spaccare anche la testa del gruppo terroristico che si prepara a crescere in alcune aree del paese, riferendosi proprio all’Unità di Protezione popolare che, durante gli anni della lotta al terrorismo, colpì in positivo l’opinione pubblica occidentale, la quale mostrò riconoscenza per la resistenza posta in essere nei confronti del nemico comune. Oggi, però, il nemico non è più comune: i gruppi curdi, siriani e iracheni, si trovano ad affrontare gli attacchi della Turchia (paese NATO) nel silenzio e, se la strategia di Erdoğan dovesse realizzarsi, nel benestare internazionale, soprattutto relativo a quella parte di comunità che si è impegnata a sanzionare un paese invasore a poche ore dall’attacco, ignorando invece le incursioni di un alleato che da anni provocano morte e distruzione, negando il principio di autodeterminazione dei popoli.
[Di Salvatore Toscano]
io spero invece, di campare abbastanza da vedere la testa di Erdogan cadere e rotolare nel fango dove meritano di stare tutti quelli come lui, feccia del creato!
La Nato è un carrozzone dove sarebbe più vantaggioso uscire che entrare, sopratutto per i Paesi europei.