La crisi economica e finanziaria che lo Sri Lanka si porta dietro ormai da diversi mesi, è arrivata ad un epilogo: la banca centrale del paese ha ufficialmente annunciato il default, che si traduce con l’impossibilità di un Governo di ripagare il proprio debito pubblico (sia le obbligazioni che i prestiti concessi da Governi e istituzioni internazionali). Negli ultimi 15 anni lo Sri Lanka ha contratto debiti per il 65% del PIL, e nel 2022 ha in scadenza circa 4 miliardi di dollari di oneri.
D’altronde non poteva andare molto diversamente da così, con un tasso di inflazione che ha superato il 20% (e che ha portato i prezzi di beni essenziali alle stelle), con il governo a corto di riserve di moneta estera (necessarie per pagare le importazioni), carenza di beni primari come cibo, o di carburante e medicinali. La valuta locale, la rupia, si è deprezzata del 60% nell’ultimo anno.
Nella storia del Paese, da quando cioè ha dichiarato l’indipendenza dal Regno Unito nel 1948, non era mai successo che si arrivasse al default. La commistione di diversi fattori e il fatto che siano capitati nello stesso periodo (pandemia, inflazione più alta di 10 volte rispetto alla percentuale consigliata dall’UE e guerra in Ucraina) ha strozzato completamente l’economia, portandola a soffocare nei suoi stessi debiti.
Alla lista dei “colpevoli” se ne aggiunge un altro, giudicato tale dalla popolazione locale: il Governo. La gente ha accusato la dinastia Rajapaksa – a capo del paese da ormai 20 anni- di essere la principale causa del tracollo economico e finanziario che sta mettendo in ginocchio tutto il territorio. Corruzione e disinteresse sarebbero alla base, secondo i cittadini, della politica della famiglia, a cui frega poco della salute del paese. La popolazione, per protesta, ha manifestato per le strade, dando alle fiamme veicoli e abitazioni dei rappresentanti del governo in tutta l’isola, costringendo di fatto il Primo Ministro Mahinda Rajapaksa a presentare le dimissioni. In totale sono state date alle fiamme le case di 40 politici pro-Rajapaksa.
«Il paese non ha più carburante e neanche i soldi per comprarne di nuovo», ha detto il neo-primo ministro Ranil Wickremesinghe nel suo primo discorso alla nazione. «I prossimi due mesi saranno i più difficili della nostra vita».
Gli economisti temono che queste parole possano essere pronunciate da più del 60% dei paesi a basso reddito, ad oggi costretti ad affrontare una forte crisi del debito simile a quella dello Sri Lanka. E se dovesse succedere davvero? «La comunità internazionale non è preparata ad affrontare un incombente problema del debito. Il sistema può affrontare questi problemi solo un paese alla volta» dicono le Nazioni Unite.
Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha avviato trattative di salvataggio (oltre che con lo Sri Lanka) anche con Egitto e Tunisia, che dipendono fortemente da Russia Ucraina per il grano e con il Pakistan, che non riesce più a pagare l’import dell’energia. Ma come abbiamo ribadito più volte, questi sistemi non vanno visti come ancore di salvataggio. È bene sottolineare che il denaro concesso dal Fondo monetario non è a costo zero. I paesi che ricevono aiuti dal FMI devono accettare delle clausole molto rigide all’insegna del neoliberismo, compresi tagli ai settori dell’educazione, della sanità e dei servizi pubblici.
In pratica, i paesi debitori sottoscrivono dei “piani di aggiustamento strutturale”, impegnandosi a intervenire duramente sulle proprie politiche economiche con privatizzazioni e riforme di stampo liberista. Delle condizioni che in altri paesi non solo non hanno risolto strutturalmente il problema del debito, ma hanno anzi alla lunga aggravato le condizioni economiche dei paesi interessati.
[di Gloria Ferrari]
Esiste un’alternativa vincente al neoliberismo?