Per chi non viene da situazioni privilegiate, l’accesso al mondo del giornalismo di livello elevato è difficile. Secondo uno studio pubblicato nel 2018 sul Journal of Expertise, che metteva a confronto il curriculum di quasi 2000 persone, fra collaboratori, reporter, ed editori, solo una manciata di scuole selezionate alimenta l’apice del giornalismo. Quasi tutti i grandi professionisti di New York Times e Wall Street Journal hanno un curriculum studiorum simile, con lo studio all’università di materie diverse rispetto a quella del giornalismo ed una laurea entro la stessa piccola coorte di istituti prestigiosi. E questo a prescindere poi dalla linea editoriale o dalle tendenze politiche dei singoli grandi giornali, in verità sempre più allineate anch’esse all’ideologia liberal-democratica. Lo studio è stato condotto sulla realtà statunitense ma, come vedremo, presenta risultati sempre più sovrapponibili anche la realtà italiana, dove l’iscrizione alle costose Scuole di Giornalismo riconosciute dall’Ordine è diventata pressoché l’unica strada per diventare professionisti.
Secondo Silvio Waisbord alcuni giornalisti d’élite beneficiano della «professionalizzazione del giornalismo» che permette di giungere a una «caratterizzazione» specifica, con competenze, regole e principi appannaggio solo di chi entra nel circuito giusto. Altri vengono invece rigidamente «addestrati» a pratiche e strumenti divulgati solo nelle scuole o nelle redazioni prestigiose. Questo spiegherebbe parzialmente la sovra-rappresentazione di questa categoria di individui nelle redazioni importanti. Daniel Kreiss, professore che studia il giornalismo e i fenomeni dei media, sostiene che col tempo, anche se i ricavati dell’attività sono calati in modo consistente rispetto ad anni fa, a certi livelli lo status del giornalista non ha fatto che crescere. Una «classe sociale» che per risorse economiche, indipendenti dalla mera professione, per mezzi, conoscenze, ecc. è così distante anni luce dalle condizioni poi del lettore medio: «I giornalisti sono élite altamente istruite, urbane e cosmopolite rispetto al pubblico che servono». Ma anche e soprattutto dalle condizioni della stragrande maggioranza degli altri colleghi giornalisti, meno fortunati economicamente.
Come anticipato una realtà simile si sta alimentando anche in Italia. Con la chiusura – causa crisi del settore – di quella che un tempo era la via maestra, ovvero l’ottenimento di regolare contratto di praticantato presso una redazione, l’unica possibilità rimasta ad oggi per diventare giornalista professionista è la “Scuola di Giornalismo”. Sono undici in tutto quelle riconosciute dall’Ordine dei Giornalisti, a numero chiusissimo: solitamente 20 studenti ammessi per ogni biennio. Nonostante la maggior parte siano ospitate in università pubbliche, la retta d’iscrizione è per pochi e non sono previste borse di studio per redditi bassi. Si va dai 16.000 euro a biennio, fino ai 22.000. Questo finisce per tagliare fuori dalla professionalizzazione chi non parte da una base economica solida alle spalle. Una differenza che non solo discrimina l’accesso, ma che provoca anche evidenti problemi di ricchezza dei punti di vista dei giornalisti, visto che giocoforza sono praticamente tutti bianchi, appartenenti alla borghesia e difficilmente provengono dai quartieri popolari.
[di Andrea Giustini]
Sono gli stessi immediatamente riconoscibili dal linguaggio moderno anzi, iper-moderno, farcito come un burger di termini anglosassoni in versione più o meno “aggiornata”.
Sarebbe interessante anche avere un quadro generale della situazione contrattuale ovvero, quale percentuale di giornalisti viene assunta direttamente dalla testata e/o editore e quanti hanno lo statuto di ‘free-lance’.
Andrea Giustini, scusami, sto scrivendo in bici! E il correttore è bastardo!
Vorrei incoraggiare Andrea Giustino a proseguire su questo tema. Ho diretto la Scuola di Giornalismo della Università di Torino, in team con Vera Schiavazzi, dal 2009 al 2013. Mi piacerebbe conoscere meglio la situazione attuale. Posso assicurare che in quei 4 anni non abbiamo forzato nessuno a scegliere un particolare atteggiamento ideologico. Ma temo che fosse una eccezione