Se volete potete ricordare i film di Stanley Kubrick, da Arancia meccanica a Eyes Wide Shut, oppure Pirandello e il suo teatro, raccolto complessivamente sotto il titolo Maschere nude, ma potete anche pensare alle maschere sull’attaccapanni e agli incappucciati dei quadri di René Magritte o, che so, potete sfogliare l’importante studio Il volto demoniaco del potere (1958) di Gerhard Ritter, riedito qualche anno fa da Il Mulino con una copertina molto esplicita che, mostrando le maschere, allude al degrado dei poteri nascosti nell’anonimato.
Vorrei anche tener presente il noto lavoro di Mihail Bachtin su Rabelais e la cultura popolare nel Rinascimento (1958), che mette al centro il grottesco, il basso corporeo, il travestimento, il capovolgimento dei poteri costituiti, sovvertiti simbolicamente, soprattutto nel tempo di Carnevale. Ma ora che il carnevale è permanente, che le maschere, l’abbigliarsi provocatorio, i tatuaggi, le irrisioni sono continue e in ogni luogo, si è persa la coscienza che la maschera è legata a un tempo specifico dell’anno o all’esistenza di un palcoscenico predisposto. Il palcoscenico, scriveva il sociologo Goffman, è l’intera scena sociale, quotidiana.
La maschera, di conseguenza, è un abito universale, insieme del potere e della ribellione che lo investe, la maschera è la trappola del vivere come diceva Pirandello, è il nascondimento dei veri interessi, è la forma di una ipocrisia generalizzata, di cui la prima responsabile è stata la televisione, focolare di un indottrinamento lento, progressivo, inesorabile. Pensiamo a The Truman show, dove la maschera trionfa benché nessuno ne porti realmente una.
La maschera è funzionale al potere perché allontana, o perfino esclude la confidenza, l’incontro, ne abbiamo imparato qualcosa negli ultimi tempi. Dunque, maschere di un comando che non può più essere smascherato in quanto usa volti scoperti, a lui funzionali, di comodo. A noi governati, invece, sono toccate maschere di protezione, come fossimo chirurghi, pompieri, motociclisti, fedeli religiosi che le mettono per i più svariati motivi.
Il camerino delle attrici e degli attori impegnati nel trucco si è moltiplicato con il make up nella vita quotidiana. Roland Barthes scriveva negli anni Cinquanta che il make up prepara il tempo di una bellezza che esiste finché rispetta certi canoni, la grammatica del mostrarsi e della sua rappresentazione. Dunque la maschera vive, diciamo fortunatamente, un paradosso, può essere pensata per il nascondimento o per l’esibizione, e in questo equivoco si nasconde la forza di un potere occulto ed esibito insieme.
Siamo insomma asserviti a forze impersonali, cioè a un potere non più antropomorfico: così afferma Mario Soldati in uno scritto di quasi cinquant’anni fa raccolto nel suo libro Le sere (Rizzoli 1994).
[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]
Ecco! Io che avevo un po’ paura delle maschere a carnevale e tutti mi prendevano in giro.