domenica 22 Dicembre 2024

Reportage esclusivo: in Ecuador è in corso una vera rivolta popolare

“Fuera Lasso, fuera!”. Migliaia e migliaia i manifestanti per le strade di tutto il paese. Indigeni e meticci, neri e bianchi, in tanti sono scesi a manifestare contro le politiche neoliberali di Guillermo Lasso. Siamo al quattordicesimo giorno di proteste in Ecuador. Mezzo paese è bloccato e le principali vie di comunicazione dei trasporti sono chiuse, anche all’interno delle stesse città. Sassi, terra, pneumatici e legni in fiamme: qualsiasi strumento viene utilizzato per sbarrare le strade. Mancano gli approvvigionamenti. Le comunità indigene dell’Amazzonia hanno chiuso più di mille pozzi petroliferi, causando perdite per 186.000 barili diari. Si contano quindi più di 96 milioni di dollari di perdite dirette. Il presidente di Petroecuador dichiara che se continua così, nel giro di qualche giorno potrebbe paralizzarsi completamente la produzione. Mercoledì notte in Tungurahua è stata occupata e chiusa una centrale elettrica, di fondamentale importanza per l’approvvigionamento energetico del paese.

[Foto di Giulia Cillerai e Monica Cillerai, in esclusiva per L’Indipendente]
Bloccare l’economia. Bloccare tutto, queste le parole d’ordine dello sciopero. E in tanti hanno risposto. Ora migliaia di manifestanti provenienti dalle comunità di tutte le nazionalità indigene dell’Ecuador si sono radunati a Quito, nella capitale, per esigere risposte concrete alle loro rivendicazioni. Quando il popolo si ribella, la politica inizia ad avere paura. Ed è ciò che sta succedendo per le strade dell’Ecuador. Il governo ha risposto aumentando la repressione. Poco prima dell’inizio del Paro aveva approvato una legge “sull’uso progressivo della forza”, che di fatto legittima le forze dell’ordine a sparare “se in pericolo”. Ossia, gli arroga il diritto di uccidere. Inoltre, il presidente Lasso ha emesso due decreti di stato di eccezione – derogati sabato 25 in serata – prima coinvolgendo tre province, e poi allargando a sei i territori toccati. Lo stato di eccezione prevedeva un aumento dei poteri dell’esercito e della polizia, che, abbinato al coprifuoco imposto dalle 22 alle 5 del mattino, cercava inutilmente di sedare le protestePer ora si parla di 6 morti tra i manifestanti, 300 feriti (alcuni dei quali in terapia intensiva), almeno 106 detenzioni. Varie persone sono scomparse. La polizia dichiara varie decine di feriti, più di 40 poliziotti e militari “sequestrati” per uno o più giorni dai manifestanti (tutti rilasciati senza violenza), vari mezzi della polizia e dei militari incendiati.

Dopo l’assassinio di un manifestante indigeno nella regione di Pastaza, nel Puyo, ucciso da un lacrimogeno che gli è penetrato nel cranio, la protesta si è radicalizzata nella zona arrivando a bruciare numerosi mezzi e stazioni di polizia e la sede del Banco di Guayaquil, di cui il presidente Lasso è uno dei maggiori azionisti. La stessa cosa è successa vicino a Quito, alla Mitad del Mundo, dove la rabbia scaturita dall’omicidio di due manifestanti ha fatto bruciare un intero convoglio militare. 

La sera di giovedì 23 luglio, inoltre, alcuni poliziotti in moto hanno sparato proiettili veri contro i manifestanti seduti a mangiare fuori dall’Università Centrale, ferendo un ragazzo a una gamba. Anche un furgone che distribuiva cibo è stato attaccato dalla polizia in borghese, ferendo una donna al braccio. “L’uso progressivo della forza” sta diventando omicida. 

Venerdì 24 il presidente Lasso ha fatto un discorso minaccioso, in cui invitava gli indigeni ad andarsene se volevano restare al sicuro. In altre parole, ha dato il via libera alla polizia a sparare. La repressione quel giorno è stata durissima.

Le classi sociali più povere non ce la fanno più: con l’aumento del prezzo della benzina e del diesel voluto dal governo nonostante gli accordi precedenti e il paro del 2019, l’inflazione sta andando fuori controllo. I più toccati sono i campesinos, i contadini, gli allevatori, e tutte le persone che se già prima faticavano ad arrivare alla fine del mese, ora hanno i conti sempre in rosso. Ma abbassare i prezzi di benzina e diesel non sono le uniche rivendicazioni di questo sciopero a tempo indefinito. La CONAIE, la più grande organizzazione per i diritti indigeni dell’Ecuador, ha indetto lo sciopero nazionale, chiedendo al governo risposte concrete e pubbliche ai 10 punti avanzati dall’organizzazione. 

Le rivendicazioni

La riduzione e il congelamento dei prezzi dei carburanti (a 1,50 per il diesel e a 2,10 dollari per il gallone di benzina – ossia 3,78 litri); il rifinanziamento dei debiti del settore agricolo per un anno; il controllo dei prezzi dei prodotti agricoli, come garanzia a contadini e allevatori; la non precarizzazione della giornata lavorativa; la revisione dei progetti estrattivi, con l’abrogazione dei decreti 95 e 151 che promuovono l’aumento dello sfruttamento petrolifero e minerario, e nello specifico impedire ogni forma di estrazione mineraria nei territori indigeni; la regolamentazione dei prezzi dei beni di prima necessità per evitare speculazioni; il rispetto dei diritti collettivi, come l’educazione bilingue e la giustizia indigena; la non privatizzazione dei settori strategici; un bilancio dignitoso per la sanità e l’istruzione; la creazione di politiche di sicurezza pubblica. Questi i punti sui quali l’organizzazione indigena ha avanzato richieste chiare ed articolate.

La CONAIE ha emesso questi 10 punti già vari mesi fa, ma nessuna risposta da parte del governo era pervenuta. Così il 13 giugno è iniziato lo sciopero, con blocchi e manifestazioni in tutto il paese. Anche i settori studenteschi di Quito e di Cuenca si sono uniti alle proteste, chiedendo maggiori investimenti al settore dell’educazione e promuovendo manifestazioni quotidiane a cui si sono unite migliaia di persone. Dopo una settimana di mobilitazioni, Lasso rispose promettendo il congelamento del prezzo del carburante, però al prezzo attuale, mantenendo di fatto i prezzi di tutto altissimi; assicurò l’aumento degli aiuti alle famiglie più povere di 5 dollari; promise il condono dei debiti fino a 3000 dollari. Briciole, rispetto alle richieste del movimento indigeno. A quel punto la CONAIE ha annunciato la marcia su Quito. 

[Foto di Giulia Cillerai e Monica Cillerai, in esclusiva per L’Indipendente]
Il ricordo del Paro del 2019 è ben vivido nella memoria di tutti, sia dei manifestanti che dei politici. La repressione era stata durissima, e aveva lasciato al suolo 11 morti tra i manifestanti, con migliaia di feriti e 1300 arresti. Lo sciopero era durato 11 giorni e aveva causato perdite economiche per centinaia di milioni di dollari. L’unico modo, per i manifestanti, di farsi ascoltare. Il governo però non rispettò gli accordi e abrogò il decreto 883 che eliminava il sussidio statale alla benzina, rivendicazione principale del Paro; dopo pochi mesi cominciò ad aumentare progressivamente il prezzo del carburante. Misure richieste dal Fondo Monetario Internazionale all’Ecuador per poter accedere a prestiti economici. Per questo, ad oggi, la CONAIE non sta accettando il dialogo bilaterale con il governo appoggiato dall’ONU e dall’Unione Europea. Il presidente dell’organizzazione, Leonidas Iza, ha dichiarato mercoledì che prima di dialogare, il governo avrebbe dovuto demilitarizzare la zona della Casa della Cultura e dell’Arbolito in Quito – luoghi simbolo dove il movimento indigeno si è sempre organizzato – nonché permettere l’assemblea pubblica tra le varie organizzazioni sociali e indigene, che devono decidere in merito al dialogo con il governo. Chiedono inoltre il ritiro immediato dello stato di eccezione. 

Un riassunto delle due settimane di sciopero

Lo sciopero è iniziato nelle prime ore del mattino di lunedì 13. Centinaia le strade bloccate. La notte successiva, il leader della CONAIE è stato arrestato da alcuni militari in passamontagna mentre viaggiava in macchina nella regione di Cotopaxi. Su Twitter, il presidente Guillermo Lasso ha annunciato l’inizio degli arresti di coloro che ha definito «autori materiali e intellettuali di atti violenti» durante la giornata di mobilitazione nazionale. Il giorno stesso la protesta si è radicalizzata, sfociando in feroci scontri fuori dal carcere di Latacunga, nella zona di Cotopaxi, dove era stato fermato Iza. Gli indigeni hanno anche “preso in custodia” vari agenti di polizia e un delegato della Fiscalia in distinte zone del territorio, pretendendo la liberazione del loro rappresentante.

[Leonidas Iza, presidente della CONAIE]
A Quito la manifestazione di martedì è arrivata davanti all’unità di Flagrancia (Ufficio della Procura), ed è finita con una macchina della polizia bruciata lì davanti. In serata alcuni camion pieni di manifestanti indigeni provenienti dal Cotopaxi si sono avviati verso la capitale, per pretendere la liberazione del loro leader. Leonidas Iza è stato liberato mercoledì mattina con una denuncia per aver bloccato, in flagranza di reato, i servizi pubblici del paese. Gli hanno concesso misure alternative alla detenzione preventiva, ossia l’obbligo di non lasciare il paese e di presentarsi a firmare due volte alla settimana presso la procura. 

Data l’assenza di risposte concrete alle richieste, la CONAIE aveva annunciato venerdì 17 la marcia su Quito. Nel fine settimana centinaia di camion pieni di manifestanti provenienti dalle comunità indigene di tutto il paese hanno iniziato ad arrivare alle periferie della capitale, battagliando varie volte per riuscire a superare i blocchi dei militari che volevano impedirgli il passo. Sabato 18 nel sud di Quito c’è stata una vera battaglia, a cui si sono unite molte persone dei quartieri popolari della città.

[Foto di Giulia Cillerai e Monica Cillerai, in esclusiva per L’Indipendente]
Domenica, la polizia antisommossa ha perquisito e occupato la Casa della Cultura e il parco dell’Arbolito di Quito, luoghi simbolo dell’organizzazione del movimento indigeno in città. La scusa è stata la necessità di avere spazi per la polizia e i militari, ossia di rendere la Casa della Cultura una caserma. È la seconda volta nella storia che l’autonomia di quello spazio viene violata: l’ultima fu 42 anni fa, in piena dittatura. Gli agenti hanno dichiarato di voler occupare per lo stesso motivo anche l’università Politecnica e l’Assemblea Nazionale. Lunedì 20 centinaia di camion e furgoni, dopo aver superato tutti i blocchi dei militari, hanno iniziato la discesa su Quito con un corteo infinito di mezzi pieni di persone, accolto al suo passaggio da una grandissima solidarietà. Gli abitanti delle strade attraversate dal corteo, hanno regalato acqua, cibo, coperte, e gridavano slogan contro il governo di Lasso. Inoltre, poiché la Casa della Cultura era occupata dalla polizia, gli studenti si sono ritrovati all’Università Centrale, che ha concesso loro di occuparne gli spazi il martedì mattina. Anche l’Università dei Salesiani è stata utilizzata come dormitorio. 

Martedì 21 giugno ci sono stati scontri tutto il giorno. I manifestanti, attaccati dalla polizia all’Università Salesiana, si sono riversati per strada, in una battaglia di posizione in direzione della Casa della Cultura che è durata fino a sera. Mercoledì migliaia di persone sono scese in corteo per le strade del centro e del nord della città, manifestando per ottenere una risposta ai punti richiesti. Nel pomeriggio e in serata è continuata la battaglia di difesa nelle strade tra le due Università e la Casa della Cultura. I manifestanti si sono armati di scudi e pietre, mentre la polizia antisommossa ha sparato lacrimogeni, bombe stordenti e proiettili di gomma. Molti i feriti, troppi i morti. La Guardia Indigena e le prime linee si sono occupate della difesa del corteo, anche se è difficile opporsi ai mezzi corazzati della polizia con degli scudi di legno. Le bombe lacrimogene sono state lanciate fin dentro l’Università, in cui si trovavano anche centinaia di bambini ed anziani.

[Foto di Giulia Cillerai e Monica Cillerai, in esclusiva per L’Indipendente]
Giovedì, come quasi ogni giorno, c’è stata un’assemblea di tutte le popolazioni indigene presenti nelle mobilitazioni; poco dopo i manifestanti sono partiti in corteo e sono riusciti a riprendersi la Casa della Cultura, che la polizia ha quindi dovuto abbandonare. Nel frattempo, i blocchi e le manifestazioni sono continuati in tutto il territorio nazionale. Leonidas Iza ha affermato che lo sciopero non finirà finché non si otterranno risposte concrete, e che se sarà necessario arriveranno altre migliaia di persone su Quito. Ha anche invitato la popolazione della città ad unirsi alle proteste, sottolineando che questa non è una lotta solo per gli indigeni, ma per tutti gli ecuadoriani. Nei giorni scorsi si sono viste anche alcune manifestazioni, poco partecipate, contro lo sciopero nazionale, caratterizzate da insulti razzisti verso gli indigeni. I giornali ufficiali ecuadoriani non danno informazioni reali su quello che sta accadendo e spesso definiscono i manifestanti come “terroristi”. Le persone si informano attraverso media ufficiosi come Twitter, Facebook, e TikTok ma spesso la rete non funziona e i manifestanti accusano il governo di utilizzare strumenti per bloccare il traffico dei dati, limitare e controllare le informazioni.

Un delicato equilibrio politico

L’equilibrio politico è molto precario e il presidente Lasso si è ritrovato quasi senza appoggio in parlamento. Sabato 25 nella seduta dell’Assemblea Nazionale, il blocco di opposizione della UNES infatti ha proposto la destituzione del presidente. La “morte cruzada” è un processo che durerà qualche giorno, e che, se riuscirà, vedrà il paese andare ad elezioni anticipate.

Lasso, impresario e ex-banchiere, tra i maggiori azionisti del banco di Guayaquil, uno dei responsabili della dollarizzazione dell’Ecuador e accusato di frode nei Pandora Papers, non è sicuramente tra i presidenti più amati. Ora, nel Paro, sta commettendo vari altri errori: dall’arresto del leader della CONAIE, all’annuncio dello stato di eccezione che vietava le manifestazioni e gli assembramenti di più di 5 persone – mentre, contemporaneamente, appoggiava pubblicamente le manifestazioni contro lo sciopero nazionale, – fino alla violenta repressione. In molti vogliono vedere cadere il governo.

Guillermo Lasso, Presidente dell’Ecuador

I movimenti indigeni hanno una lunga tradizione nel far cadere presidenti: queste “discese” su Quito per rivendicare i propri diritti, che spesso finivano con il pretendere le dimissioni del presidente di turno, erano usuali prima dell’arrivo al potere di Rafael Correa, nel 2007. Anche nello sciopero nazionale del 2019 molti manifestanti volevano la caduta del presidente Lenin Moreno, accusato di non fare gli interessi del popolo; ma il Paro si concluse con un accordo tra CONAIE e governo, creando, inoltre, non poco discontento tra le basi dell’organizzazione. 

Il fine settimana ha portato con sé due giorni di calma apparente. Quasi sembra che il Paro sia finito, le barricate sono state smontate e non ci sono stati scontri per le strade. Sabato lo stato di eccezione è stato derogato. In molti parlavano di un inizio di “dialogo” e della fine dello sciopero. Ma nelle ultime dichiarazioni Leonidas Iza ha smentito la voce di un incontro bilaterale, e ha ribadito che le mobilitazioni continueranno, nonostante l’aumento della repressione, finché il governo ecuadoriano non risponderà a tutte le richieste avanzate dai gruppi indigeni. Ha ricordato, inoltre, che l’obiettivo del Paro non è quello di far cadere il presidente, ma di avere delle risposte concrete sui 10 punti e ha annunciato la riapertura di alcune strade per poter far arrivare approvvigionamenti nelle città. Infine, il presidente della CONAIE ha affermato di essersi recato all’incontro tenutosi nella Basilica del Voto Nacional di Quito il 25 giugno “per rispetto” del presidente dell’Assemblea Nazionale, Virgilio Saquicela, che ha portato a questo primo contatto tra le due parti. Saquicela ha riferito che durante la riunione è stato proposto di istituire un comitato tecnico con delegati del movimento indigeno e del governo per avviare il processo di dialogo e analizzare ciascuna delle proposte avanzate dai manifestanti. Qualche ora dopo, Leonidas Iza ha fatto sapere che l’incontro non ha toccato un solo punto della lista di dieci richieste che hanno portato la CONAIE e altre organizzazioni alla mobilitazione nazionale e a tempo indeterminato. «Senza la possibilità di toccare alcun punto, ci siamo ritirati», ha detto Iza, che ha aggiunto che qualsiasi decisione di avviare un dialogo sarà consultata con le 53 autorità di popoli e nazionalità indigene che compongono l’organo decisionale della CONAIE.

Ora non si sa cosa succederà. Il Paro continua, non si sa fino a quando. La sua durata ha già superato quella dello sciopero del 2019. Il governo ha paura, e sta aumentando la violenza contro i manifestanti. Solo il futuro potrà rivelare quali saranno le prossime mosse del governo, dell’Assemblea Nazionale, della CONAIE e delle piazze. Però – se e quando – come nel 2019, le migliaia di persone scontente e impoverite dalle politiche neoliberali dei quartieri di Quito si uniranno al Paro, nemmeno la violenta repressione riuscirà a fermare le proteste e ad evitare la caduta del presidente. 

[di Giulia Cillerai e Monica Cillerai]

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5 Commenti

  1. Nello Sri Lanka il “presidente” è fuggito in elicottero. Vediamo che succede in Ecuador, aspettando che qualcuno in Italia si svegli dal letargo della ragione.

  2. Un popolo compatto che non si fa intimidire dai prepotenti di turno pur sapendo che vanno incontro a scontri violenti.

  3. Ci vuole la fame e la disperazione per smuovere il popolo. Sarebbe bello non arrivare a questo anche in Italia, ma avrei qualche dubbio in merito.

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