L’osservatorio Cerved ha lanciato in questi giorni un monito che ricorda il “ricordati che devi morire!” nel film “Non ci resta che piangere“. Ovvero 100.000 aziende italiane rischiano di fallire nei prossimi mesi, a causa di una serie di fattori concomitanti: aumento delle materie prime, inflazione e probabile arrivo delle cavallette. La notizia è stata prontamente ripresa in prima pagina da Il Sole 24 Ore e da altre testate giornalistiche desiderose di portare una ventata di speranza e ottimismo ai nostri imprenditori, i quali ancora auspicavano che si realizzasse la previsione fatta a fine Gennaio dal lungimirante ministro Brunetta, ovvero del un nuovo “boom economico” italiano, che si sarebbe esteso per tutto il 2022.
Niente da fare.
Anche perché il ministro si era scordato di precisare che a beneficiare di quel “boom” nel 2021 erano state soprattutto le poche (4.000) multinazionali italiane, su un totale di 4 milioni e mezzo di imprese nostrane, per il 95% composte da micro aziende con meno di due milioni di fatturato, poco coinvolte da questa esplosione del PIL. E in larga parte “drogato” dagli incentivi all’edilizia, il famoso superbonus 110% improvvisamente bloccato dal governo, a causa della mancanza di fondi.
La verità è che qualcuno al Governo è stato davvero lungimirante. Già nel 2011 Draghi ammoniva: «C’è bisogno di imprese più grandi e globalizzate». Che tradotto significa: le micro e le piccole devono essere sfoltite. Previsione confermata nel Documento G30 del dicembre 2020, quando affermò che le aziende “zombie” sarebbero state lasciate al loro destino. Quelle piccole ovviamente, poiché le grandi, soprattutto se sono banche, in Italia non possono essere lasciate al loro destino.
Questa lunga premessa per dire che siamo davvero in guerra. E il campo di battaglia non è solo l’Ucraina, ma il tessuto imprenditoriale italiano che, nonostante una burocrazia folle e l’insostenibile peso fiscale, fino ad oggi ha retto gli attacchi frontali di una politica che la vede come un problema e non come una risorsa.
Ecco perché occorre rinforzare le trincee e prepararsi alla guerrilla di difesa. Serviranno tutte le migliori energie per respingere gli attacchi di chi, sulla carta, è molto più forte di noi. E non si farà certamente scrupoli ad usare ogni tipo di arma.
Il punto debole è rappresentato dal fatto che il nostro esercito, formato da oltre 4 milioni di liberi professionisti, artigiani e piccoli imprenditori, purtroppo è molto disunito. L’illusione di far parte di una delle tante associazione di categoria, totalmente inutili quando si tratta di difendere realmente i loro associati, è simile a quella dei lavoratori che ancora sperano nei sindacati, totalmente asserviti alle grandi multinazionali.
A questa debolezza si aggiunge un diffuso livello di inefficienza, dovuto al fatto che il piccolo imprenditore è stato lentamente massacrato sotto il profilo mentale ed emotivo, e quindi gestisce la propria azienda solo di nervi e con immani sacrifici personali. Il risultato è spesso un clima di nervosismo e tensione che certo non aiuta a creare quel clima positivo necessario a remare tutti assieme – imprenditore e collaboratori – verso un obiettivo comune. Ecco perché nelle prossime puntate di questa rubrica – che parte oggi e che troverete ogni Venerdì pomeriggio su L’Indipendente – parleremo di come rendere più forte e resistente una micro o piccola azienda, trasformandosi in Imprenditori Sovversivi.
Perché in ballo c’è la sopravvivenza di tutti noi. La libertà e la democrazia. La necessità di non piegarsi di fronte allo strapotere dei più forti, che decidono dall’alto chi deve sopravvivere e chi invece deve morire.
Sarà un lungo percorso che faremo assieme, per condividere le tattiche della guerrilla economica e finanziaria in atto. Saremo insomma come dei nuovi “viet cong”, consapevoli del fatto che solo cambiando le regole dello scontro e, soprattutto, stando uniti, potremo avere una piccola possibilità di successo.
[di Fabrizio Cotza]
D’accordissimo sul fatto che ci siamo un po’ dimenticati di vedere il lavoratore come una gran risorsa, quindi un investimento, invece di trattarlo come un costo pesante da mantenere.
E pensare che una delle grandi differenze tra l’essere umano e una macchina è che l’uomo, generalmente, più acquisisce esperienza e meno tempo ci mette a svolgere la sua funzione, quindi, di fatto, risparmiando. Inoltre, si adatta ad una nuova mansione, qualora gli venisse richiesto. Una macchina ci metterà lo stesso tempo a produrre, per esempio, un bicchiere, lo farà sempre uguale, qualora avessi bisogno che faccia una caraffa dovrai cambiare la macchina o il programma e, cosa forse ancora più importante, esiste il concetto di programmazione obsoleta: dopo pochi anni di vita dev’essere sostituita.
In conclusione, speriamo che le persone ricordino l’importanza delle risorse umane.
Grazie, la rubrica è utilissima per gli appassionati di gestione aziendale.