Il 19 Luglio 1992, alle ore 16.58, un boato scuote Palermo. È la seconda volta in 57 giorni: dopo aver eliminato Giovanni Falcone a Capaci con un attentato terribile quanto scenografico, questa volta la mafia scatena la sua violenza contro il giudice Paolo Borsellino, che viene investito dall’esplosione di un’autobomba in Via D’Amelio, quando ha appena suonato al campanello di casa dell’anziana madre. Con lui, muoiono anche i 5 membri della scorta Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Agostino Catalano ed Eddie Walter Cosina. Eppure, subito dopo lo scoppio, tra le macerie di quella strada dissestata qualcuno è alla ricerca di un oggetto che deve essere rimosso dal perimetro della strage nel più breve tempo possibile. L’agenda rossa del giudice.
La scomparsa dell’agenda rossa
La vicenda legata alla sparizione dell’agenda rossa appartenuta a Paolo Borsellino, che la utilizzò senza mai separarsene nel periodo compreso tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio, è ancora avvolta nel mistero. L’agenda, contenuta nella borsa di cuoio che si trovava sul sedile posteriore della macchina che ha ospitato il magistrato nel suo ultimo viaggio, venne prelevata dall’auto nei minuti successivi all’esplosione della bomba: sappiamo che passò dalle mani di Rosario Farinella, carabiniere e membro della scorta dell’allora deputato (e precedentemente pm al Maxiprocesso) Giuseppe Ayala, il quale la prelevò dall’auto e la consegnò a una persona non meglio identificata; poi, tra le 17.20 e le 17.30, fu nella disponibilità di un capitano dei Carabinieri, Giovanni Arcangioli, che venne ripreso mentre la portava all’uscita di via D’Amelio. La borsa ritornò poi nell’auto da cui era stata tolta, per poi essere prelevata dall’agente Francesco Paolo Maggi, che la portò in Questura, nella stanza del capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera. Quest’ultimo è un personaggio centrale nella nostra storia, dal momento che, nella storica sentenza del Borsellino-Quater (che ha ricevuto il timbro della Corte di Cassazione), viene collegato dalla Corte d’Assise di Caltanissetta al macroscopico depistaggio che si verificò sulle indagini sulla strage di Via D’Amelio, che fu incarnato dalle false dichiarazioni rese ai magistrati dal finto pentito Vincenzo Scarantino e costituì il frutto di «un proposito criminoso determinato essenzialmente dall’attività degli investigatori, che esercitarono in modo distorto i loro poteri». I giudici di Caltanissetta hanno infatti sancito che «c’è un collegamento tra il depistaggio e l’occultamento dell’agenda rossa di Paolo Borsellino, sicuramente desumibile dall’identità di uno dei protagonisti di entrambe le vicende», per l’appunto La Barbera, il quale sarebbe stato «intensamente coinvolto nella sparizione dell’agenda rossa» e il cui ruolo fu «fondamentale nella costruzione delle false collaborazioni con la giustizia». Ma gli uomini di fiducia di La Barbera, rinviati a giudizio con l’accusa di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa Nostra per aver esercitato un “pressing fatto di minacce, anche psicologiche, maltrattamenti e manomissioni di prove” per indurre Scarantino a depistare le indagini, non hanno ricevuto condanne: lo scorso 12 luglio due di loro, Mario Bo e Fabrizio Mattei, essendo caduta l’aggravante di aver favorito Cosa Nostra, sono stati salvati dalla prescrizione, mentre il terzo, Michele Ribaudo, è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”.
La testimonianza di Lucia Borsellino
Gli ultimi giorni di vita di Borsellino
Quello di cui siamo certi, perché a ribadircelo sono stati i familiari e i più stretti collaboratori del giudice, è che Borsellino utilizzò quell’agenda nei 57 giorni intercorsi tra la morte di Falcone e la strage di Via D’Amelio. E quelle settimane furono dense di appuntamenti, scoperte e colpi di scena che coinvolsero direttamente l’azione umana e investigativa del magistrato.
Il 25 maggio, due giorni dopo l’omicidio di Giovanni Falcone, Borsellino rilasciò un’intervista al giornalista di Repubblica, Giuseppe D’Avanzo, in cui manifestò apertamente la sua intenzione di fornire ai magistrati titolari dell’inchiesta sulla strage di Capaci importanti rivelazioni: «Purtroppo la procura di Palermo [in cui Borsellino lavorava come procuratore aggiunto, Ndr] non è titolare delle indagini. Dico “purtroppo” perché, se avessi avuto la possibilità di seguire questa indagine, avrei trovato un sollievo al mio dolore. […] Per indagare sulla morte di Giovanni ho sollecitato la mia applicazione a Caltanissetta, ma mi hanno ricordato che in quella città non c’è la funzione di procuratore aggiunto. In ogni caso, andrò a Caltanissetta […] come testimone. […] Racconterò fatti, episodi, circostanze, […] racconterò gli ultimi colloqui avuti con Giovanni».
Il 25 giugno, il magistrato si incontrò in segreto con Mario Mori e Giuseppe De Donno, uomini del Ros, in una caserma a Carini. Pochi giorni prima, De Donno aveva avvertito Liliana Ferraro (la quale aveva preso il posto di Giovanni Falcone come direttore generale degli affari penali al ministero della Giustizia) di aver avviato una trattativa con i vertici di Cosa nostra grazie all’intermediazione di Vito Ciancimino, ex sindaco DC di Palermo, corleonese e mafioso, che avrebbe accettato questo ruolo in cambio di “garanzie politiche”. La Ferraro chiese a De Donno di informare Paolo Borsellino e avvertì del colloquio avuto col carabiniere del Ros il ministro Martelli, il quale, a sua volta, le indicò di parlarne con Borsellino. Avvertito dalla Ferraro di quanto riferito da De Donno il 28 giugno, il giudice si limitò a risponderle: «Ci penso io». La sera stessa, intervenendo a un dibattito organizzato dalla rivista Micromega presso l’atrio della Biblioteca Comunale di Palermo, Borsellino lanciò un grido disperato all’indirizzo della Procura di Caltanissetta, aprendo così il suo discorso: «Questa sera sono venuto soprattutto per ascoltare, perché ritengo che mai, come in questo momento, sia necessario che io ricordi a me stesso e a voi che sono un magistrato. In questo momento, inoltre, oltre che magistrato, io sono testimone. Sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone – non voglio dire più di ogni altro […] – e avendo raccolto comunque, come amico di Giovanni Falcone tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico delle opinioni, delle convinzioni che mi sono fatto raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me devo per prima cosa assemblarli e riferirli all’autorità giudiziaria, l’unica in grado di valutare quanto queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell’evento che ha posto fine alla vita di Giovanni, e che, soprattutto nell’immediatezza di questa tragedia, ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita». Eppure, a Borsellino, la chiamata da Caltanissetta non arrivò mai.
Domenica 28 giugno, Borsellino incontrò all’aeroporto di Fiumicino il ministro della Difesa Salvo Andò, che lo prese in disparte per parlare con lui di un’informativa del Ros, inviata alla Procura di Palermo, che li individuava come possibili bersagli di un attentato mafioso. Borsellino ne era però completamente ignaro: il suo Procuratore capo Pietro Giammanco non gli aveva riferito alcunché. Il giorno seguente, facendo ritorno in Procura, Paolo Borsellino protestò veementemente contro Giammanco per non averlo avvertito. Addirittura, sbatté il pugno sul tavolo ferendosi una mano.
Il 1° luglio ebbe luogo il primo interrogatorio dell’ex autista di Totò Riina, Gaspare Mutolo, sentito da Paolo Borsellino nella sede della dia a Roma. Mutolo anticipò al giudice che le sue rivelazioni sarebbero state sconvolgenti, poiché gli avrebbe riferito delle collusioni tra i mafiosi e Bruno Contrada, l’allora numero tre del Sisde, e Domenico Signorino, pm al Maxiprocesso. “Comincio a parlare e lui aprì la sua agenda rossa – ha ricordato Mutolo -. Non lo so cosa ci scrivesse, ma era grande e piena di appunti. Quel luglio lo vidi tre volte e l’agenda era sempre la prima cosa che metteva sul tavolo insieme alle sigarette e poco altro. Scriveva e fumava“.
Il 15 luglio il giudice rivelò a sua moglie Agnese, come da lei stessa raccontato anni dopo ai magistrati, di aver visto “la mafia in diretta” e che qualcuno, quel giorno, gli aveva riferito “che il generale Subranni (capo del Ros, ndr) si è ‘punciuto‘” [La “punciuta” è il nome del rituale di affiliazione a Cosa nostra, Ndr], mostrandosi in tale frangente “turbatissimo”.
Il 16 luglio ebbe luogo l’ultimo interrogatorio di Paolo Borsellino a Gaspare Mutolo, il quale aveva accettato di verbalizzare le accuse a Bruno Contrada e Domenico Signorino il lunedì successivo. I due, però, non si sarebbero mai più rivisti.
[di Stefano Baudino]
Viene una tale nausea pensando a chi ha permesso tutto questo, invece di proteggere il dr. Borsellino, anche a difesa della Verità, che invece hanno nascosto, che procura una tale sofferenza impossibile da descrivere. Un Paese così bello, unico al mondo la nostra Italia, e così colluso!! Una vergogna infinita unita alla delusione che ci possano essere così poche persone ai Piani alti interessati all’agire in onestà per il bene comune.
Avevo 18 anni. Fa venire i brividi, e incazzare come allora.