domenica 24 Novembre 2024

Gli ultimi dati sulla situazione finanziaria del calcio italiano sono impressionanti

Sul calcio italiano grava un debito di 5,4 miliardi di euro. La pandemia da Covid-19 ha contribuito solo in parte (1,3 miliardi) allo squilibrio strutturale che caratterizza un sistema ormai insostenibile, dove la crescita dei ricavi è resa vana dall’aumento degli stipendi dei calciatori e dagli ammortamenti e dalle svalutazioni. Dal 2007 al 2019 il calcio professionistico italiano ha prodotto un “rosso aggregato” pari a 4,1 miliardi di euro (circa un milione al giorno), nonostante il fatturato complessivo dei club di Serie A, B e C abbia raggiunto nel 2019 i quasi 3,9 miliardi di euro, con un aumento di 1,5 miliardi rispetto a 12 anni prima. Sono solo alcuni dei dati contenuti nella nuova edizione del Report Calcio curato dal centro studi della Federazione Italiana Giuoco Calcio (FIGC), che nella loro complessità disegnano plasticamente un settore economicamente allo sbando, che non riesce a ritrovare una sostenibilità economica nemmeno a fronte dell’aumento esponenziale dei ricavi.

Secondo il rapporto il 90% della crescita dei ricavi tra il 2007-2008 e il 2018-2019 è stata utilizzata per coprire l’aumento degli stipendi e degli ammortamenti/svalutazioni. I club si ritrovano, dunque, con bilanci in rosso e investimenti che non tornano: lo scenario peggiore per chi vede nel calcio un’impresa con cui arricchirsi, in teoria. Non a caso, lo sport più seguito dagli italiani viene definito nel rapporto come “uno dei principali settori industriali italiani e un asset strategico dell’intero Sistema Paese”, capace di attirare capitali esteri e fondi di investimento, con un impatto sul Prodotto Interno Lordo (PIL) pari a 10,2 miliardi di euro. Il calo è impressionante anche per quanto riguarda la passione che il calcio è ancora capace di generare: gli italiani a cui interessa e piace il campionato italiano sono oggi il 55%, contro il 64% del 2019, meno 9% in appena due anni.

Un quadro che dovrebbe spingere a una riflessione profonda a partire dalle stesse fondamenta di un gioco che è diventato sempre più macchina da soldi, peraltro inefficiente, perdendo le radici che hanno appassionato generazioni in tutto il mondo. «Questo rapporto è un monito. Non possiamo più rinviare una presa d’atto collettiva su dati onestamente impietosi. Dobbiamo lavorare per un risanamento generale e una diversa gestione dei nostri club», ha dichiarato il presidente della FIGC, Gabriele Gravina. Parole ovvie. Ma dalle istituzioni dello sport più popolare d’Italia non viene nessuna idea per rivitalizzare il giocattolo, se non l’appoggio all’unica soluzione che i padroni dei club inseguono da anni, ovvero innalzare gli incassi attraverso speculazioni immobiliari, mascherate lessicalmente attraverso la più accettabile definizione di “ammodernamento degli impianti”. Lo stesso Gravina, infatti, in una intervista di pochi mesi fa aveva dichiarato: «Il tema degli stadi è attuale, il domani è ora e non possiamo più perdere terreno se vogliamo recuperare tutto quello che abbiamo perso».

Bene sottolineare a questo punto che quando parlano di “stadi nuovi” e “impianti di proprietà” le dirigenze del calcio intendono non tanto la costruzione di semplici stadi, ma di tutto quello che ci sta intorno: quartieri residenziali, centri commerciali, ristoranti, uffici, tutto su demanio pubblico gentilmente concesso alle proprietà. Questa è la ragione che spinge sempre più fondi esteri a entrare in un settore che se no – dati alla mano – non farebbe gola nemmeno al più sprovveduto tra gli imprenditori. Il nuovo stadio della Roma, per fare un esempio, nel suo progetto originario – poi rivisto – prevedeva niente meno che 960 mila metri cubi di cemento. Un sistema incapace di stare finanziariamente a galla con la palla cerca insomma di sopravvivere attraverso il cemento.

[di Salvatore Toscano]

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