Ahmad Abouammo, ex dipendente di Twitter, è stato riconosciuto colpevole dalla Corte federale di San Francisco per aver sfruttato la propria posizione professionale al fine di consegnare alcune informazioni personali dei dissidenti iscritti al social alla monarchia saudita. Il quarantaquattrenne rischia ora una condanna che gli costerà dai dieci ai vent’anni di prigione e che coprirà i capi di accusa di frode telematica, riciclaggio, falsificazione di documenti, nonché di avere operato come agente di un governo straniero senza aver preventivamente denunciato di essere un soggetto politicamente esposto.
L’uomo, arrestato nel 2019, ha lavorato presso la Big Tech dal 2013 al 2015 coprendo il ruolo di media partnership manager con l’obiettivo di promuovere i servizi del social all’interno delle società del Medio Oriente e del Nord Africa. Abouammo sarebbe però entrato in contatto con Bader Al-Asaker, assistente del Principe saudita Mohammed bin Salman, fornendogli informazioni riservate che sono poi state riscattate con bonifici e regali di varia natura.
La difesa ha riconosciuto sia che l’ex dipendente di Twitter abbia ottenuto benefici economici dal rapporto con l’entourage del Principe, sia che abbia consultato i dettagli dei profili dei dissidenti, tuttavia gli avvocati sottolineano anche che non sia stata dimostrata la responsabilità dell’uomo nella consegna dei suddetti dati all’establishment saudita. Secondo la loro ricostruzione, l’atto illegale sarebbe stato invece commesso da Ali Alzabarah, ex ingegnere del social che è fuggito in Arabia Saudita ancor prima di essere arrestato. Il pratica, la difesa suggerisce che l’accusato sia stato usato come capro espiatorio da sacrificare al fine di salvare la faccia fatta tanto alle autorità, che si sarebbero fatte scappare il vero colpevole, quanto alla Big Tech, la quale non tutelerebbe adeguatamente la privacy dei suoi iscritti.
Viste le tempistiche, non è difficile credere che il giudizio abbia comunque una qualche valenza politica. A metà luglio il Presidente statunitense Joe Biden aveva infatti visitato l’Arabia Saudita nel tentativo di rinsaldare i rapporti nell’ottica di creare una “NATO araba” che possa essere in grado di contrastare l’Iran e, di conseguenza, anche la Russia. Un incontro diplomatico che si era concluso con la delusione delle aspettative della Casa Bianca.
“Com’è dimostrato da questo caso, non tollereremo l’uso improprio delle informazioni personali o il tentativo di Governi esteri di reclutare agenti maligni e segreti all’interno delle aziende tecnologiche americane”, ha annunciato in un comunicato Stephanie Hinds, procuratrice del distretto settentrionale della California. Allo stesso tempo, non si può che rimarcare come la decisione giuridica sia stata ammantata da una certa ambiguità istituzionale, se non altro perché i pubblici ministeri hanno dovuto sottostare a una sentenza del tribunale che gli ha impedito di discutere in tribunale che intelligence e ONG concordino nel denunciare che l’establishment saudita sia solito arrestare e torturare attivisti e antagonisti.
Oltre a non toccare direttamente l’Arabia Saudita, la condanna non ha coinvolto più di tanto neppure Twitter, la quale si è limitata ad accennare di aver agevolato le indagini e di aver notificato la fuga dei dati alle vittime coinvolte. Uno dei giurati avrebbe commentato la sentenza sottolineando che avrebbe preferito che il social network «fosse considerato più responsabile per questa situazione».
[di Walter Ferri]
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