sabato 23 Novembre 2024

Nei campi del Salento, tra gli ulivi mangiati dalla Xylella

Ad ogni passo il terreno sembra sbriciolarsi sotto ai piedi e il naso mi si riempie di un odore forte, a tratti fastidioso. È la puzza di terra bruciata. Attorno a me si stagliano figure mezzobusto, fredde, che hanno perso anche l’ultimo filo di voce. Non possono più raccontare. Nelle campagne che circondano la città di Casarano, in provincia di Lecce, le fiamme hanno divorato quasi tutto, ma qualche tronco, nudo, è ancora in piedi. Dove un tempo si estendeva un infinito manto verde brillante che ammaliava visitatori e gente del posto, ora non c’è altro che cenere e mucchi di rami rinsecchiti. È tutto ciò che rimane degli olivi del Salento, una terra privata delle sue radici dalla Xylella fastidiosa, così definita perché difficile da prelevare dalle piante. Un batterio così piccolo da sfuggire persino alle lenti più ravvicinate. «Noi ormai ci siamo abituati, ma a chi viene da fuori prende un colpo. Ci chiedono ma qui che è successo, una bomba?», racconta Alessandro Coricciati, proprietario dell’azienda agricola che porta il suo stesso nome.

xylella

Secondo la leggenda, al tempo degli antichi greci, ci fu una disputa fra divinità per il controllo dell’Attica, una regione storica dell’antica Grecia. Poseidone, una delle divinità coinvolte nel duello, con il suo tridente colpì il terreno con così tanta forza da far sgorgare acqua salata. La contromossa di Atena, l’avversaria, fu molto diversa: piantare un olivo. Cecrope, arbitro della gara, non ebbe dubbi sul vincitore e affidò l’Attica ad Atena. Con il suo dono la divinità aveva mutato per sempre la vita degli uomini. Da quel momento in avanti quell’albero sarebbe stato per gli esseri viventi fonte di nutrimento, faro nella notte e medicina per il corpo: a chi tentava di danneggiarlo spettava l’esilio.

Nei secoli la sacralità dell’olivo non è cambiata: l’oro verde, come vengono definiti i suoi frutti, ha dato da vivere a decine di generazioni. In Italia è la regione Puglia ad avere sul suo territorio il maggior numero di piante coltivate (prima dell’arrivo del batterio erano circa 60 milioni) e quantità di olio di oliva prodotto.

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Quando ero piccola rimproveravamo sempre nonna per la quantità di olio utilizzato nelle ricette: «Nonna, il coniglio nuota nell’olio», protestavamo. E lei ci rispondeva: «Tantu lu tegnu de casa». Sì, ce l’aveva di casa e in realtà non mancava in nessuna casa. C’era sempre una bottiglia in più per i vicini e anche per quelli che vivevano in fondo alla strada. Ce lo si scambiava per Natale o si imballava in grosse taniche di latta da 5 litri da spedire ai figli lontani, «così non lo devono comprare». Ricordo ancora quando, a venticinque anni, ho dovuto acquistare la mia prima bottiglia di olio al supermercato perché «fija mia, ulie nun ci n’è chiui». Mentre mia mamma mi diceva che «olive non ce ne sono più», io guardavo le confezioni esposte e pensavo: «Questi oli hanno tutti un colore strano, quasi trasparente». Da quel momento quel verde brillante, a tratti fosforescente, non l’avrei più rivisto.

Quando tutto è cominciato

«La Xylella è arrivata tra il 2012 e il 2013. In quegli anni si sono iniziati a vedere alcuni disseccamenti degli alberi sulla zona di Gallipoli. Molti agricoltori se n’erano accorti: erano anomali. Per questo hanno iniziato a porsi delle domande e a porre delle domande in giro» ci spiega Gianfranco D’Amico, agronomo della provincia di Lecce. Tuttavia quando il servizio fitosanitario regionale comincia a fare alcuni giri di perlustrazione, destreggiandosi tra prelievi e indagini, si accorge che il patogeno si è già diffuso su una zona di quasi 8000 ettari, prevalentemente da Brindisi giù. Questa è la parte di Puglia, quella più a sud, che negli anni ha registrato le perdite più grosse. Lo si può vedere anche ad occhio nudo: muovendosi in auto lungo la costa adriatica, il passaggio dalla zona di Bari a quella del brindisino è segnato dal progressivo disseccamento degli olivi.

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I colori del paesaggio mutano drasticamente, e in un attimo sembra di essere catapultati in un’altra stagione. Per chi è cresciuto fra questi alberi, è un boccone amaro da mandare giù. L’olivo è una specie sempreverde, che mantiene un’attività vegetativa continua e che rallenta (di poco) solo in determinati periodi dell’anno. Anche d’inverno il suo colore rimane vivo, brillante, eterno e le sue foglie solide reggono il contraccolpo di pioggia e venti forti. Per secoli i pugliesi hanno visto nell’olivo un simbolo da emulare, un esempio di resistenza e tenacia che vince sul tempo, ma che nulla ha potuto contro la Xylella.

Che si trattasse proprio di quel batterio lo si è capito nel giro di qualche mese. Dopo le prime ipotesi, abbozzate sul finire dell’agosto del 2013, la certezza è arrivata durante l’ottobre successivo. Tuttavia «si tratta di un batterio che può rimanere latente all’interno della pianta per moltissimi anni, anche 10 o 15. È possibile quindi che sia sfociato nel 2012-2013, ma che in realtà ci fosse già da un po’ di anni», dice Gianfranco. In effetti gli agricoltori avevano già da qualche tempo il sentore che qualcosa non stesse andando per il verso. Le “bruscature” – il disseccamento del lembo delle foglie – erano già parecchio frequenti persino a partire dal 2008, ma la colpa, si diceva, era da attribuite ad alcuni parassiti dell’olivo già noti, e comunque non troppo gravi. «Ovviamente gli agricoltori sin dall’inizio non hanno creduto a questo batterio. Perché? Perché ovviamente l’ulivo centenario, che ha passato e superato qualsiasi tipo di avversità, non può soccombere in quel modo. Anche oggi, nonostante siano passati dieci anni, molti agricoltori, specialmente quelli più anziani, dicono che si tratta di un qualcosa che è arrivato dal cielo», spiega Gianfranco. «Per loro non può essere un batterio a distruggere una pianta simile».

Non è facile credere alla potenza distruttrice di qualcosa che neppure si vede.

xylella

La teoria della presenza del batterio molto prima della sua manifestazione è stata sostenuta anche da uno studio condotto da scienziati in Italia, Francia e Stati Uniti (nota 1). I ricercatori sono arrivati alla conclusione che il batterio di Xylella fastidiosa sia arrivato per la prima volta in Italia effettivamente nel 2008, trasportato su una pianta di caffè. Il patogeno poi si sarebbe successivamente adattato agli ulivi, stabilendosi dentro di essi. Che significa? Gianfranco, aiutandosi con alcuni gesti, ci spiega che «il batterio alloggia nei vasi linfatici della pianta, dove i prodotti e gli strumenti utilizzati dall’uomo non possono arrivare. Ed è facile, per questo, che il batterio rimanga lì, indisturbato, nutrendosi e replicandosi». In altre parole, ostruendo le vie di passaggio incaricate di trasportare l’acqua dalle radici alle foglie. E senza nutrimento, si sa, la pianta muore.

Il fatto che l’epidemia si sia poi diffusa così rapidamente – e che nel giro di pochi anni abbia divorato decine di milioni di alberi – è frutto del lavoro certosino dei cosiddetti vettori, insetti che (come la sputacchina, scientificamente nota come Philaenus spumarius), nutrendosi di linfa, trasportano il batterio da una pianta ospite a un’altra. La contagiosità della Xylella è dunque molto elevata e la sua adattabilità a centinaia di specie diverse di piante la rende ulteriormente pericolosa.

Sputacchina dell'olivo
Sputacchina dell’olivo

Da dove arriva la Xylella?

«Ci troviamo negli anni 2000, anni in cui le piante, come qualsiasi altra cosa, vengono spostate da un punto della terra rispetto all’altro». Per questo non è così difficile che un batterio arrivi fino a noi dal Sudamerica, proprio come si pensa sia accaduto. La zona di Gallipoli è infatti ricca di fornitissimi vivai, la cui merce proviene da ogni parte del mondo. E con loro si spostano patogeni, virus e batteri. Un iter simile lo avevamo già vissuto qualche anno fa, con il punteruolo rosso e le palme. Insomma, non è affatto assurdo che le cose siano andate effettivamente così, soprattutto se si pensa che dopo la diffusione del batterio, con il rafforzamento dei controlli alla frontiera, sono state scoperte decine di partite di caffè contaminate proprio dalla Xylella.

«La nostra zona ha principalmente due problemi: è una monocoltura di ulivi ed è pure mono varietale, perché basata su due uniche varietà, l’Ogliarola leccese e la Cellina di Nardò. Le stesse varietà che il batterio ha colpito e che quindi non avrebbe senso ripiantare. Sarebbe il caso che il CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche, ndr) e l’Università di Bari autorizzassero nuove varietà». Il futuro quindi non si prospetta estremamente fruttuoso, almeno non per il momento. Per questo motivo, secondo Gianfranco, le aziende dovrebbero avere una seconda entrata e scegliere di non dedicare il 100% del proprio terreno alla coltura di olivo. Ma è tutto molto difficile: «Il nostro territorio è per l’80% zona a vincolo paesaggistico. In pratica solo la zona dell’entroterra non lo è. Su queste zone inoltre c’è una vecchia legge che stabilisce che dove ci stava un oliveto bisogna piantare almeno lo stesso numero di piante di olivo. Quindi non possiamo andare a cambiare specie. Molte aziende, anche se vogliono cambiare, sono bloccate anche dalla burocrazia. Inoltre negli anni ci sono stati alcuni bandi, lentissimi, che prevedono aiuti economici per il reimpianto, ma sempre di piante di olivo». Sì perché dei fondi, ad esempio, stanziati nel 2019 non se ne vede ancora l’ombra. E intanto, per gli alberelli, bisogna aspettare almeno quattro anni affinché inizino a produrre i primi (pochi) frutti. Insomma, per un lungo periodo l’agricoltore deve sostenere solo costi, senza un ritorno.

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E, in assenza di soluzioni concrete – e di una cura – il sospetto che in realtà la Xylella sia frutto di un piano studiato a tavolino continua ad esistere. Negli ultimi anni mi è capitato più volte di trovarmi in mezzo a discussioni di questo tipo. Nel Salento – se non si era capito – tutto questo marrone scuro mischiato al grigio in mezzo alle campagne non smette mai di accendere gli animi. «Chi ve lo dice che non ce l’hanno mandato apposta? Per favorire le olive degli altri Paesi dell’Unione Europea». È una delle teorie più accreditate, che ogni volta che qualcuno la pronuncia trova appoggio in diversi cenni di assenso dei partecipanti. Diffusa tra i contadini è anche la teoria internazionale, secondo cui il batterio sarebbe stato creato in laboratorio da una multinazionale brasiliana in accordo con la Monsanto – multinazionale statunitense di biotecnologie agrarie – con l’obiettivo di sostituire gli ulivi salentini con quelli Ogm.

Sconfiggeremo mai la Xylella?

Non è facile tradurre tutto questo in numeri. Se dovessi lasciar parlare i miei occhi, direi che di olivo sano non ne è rimasto neppure uno. Le cifre, almeno quelle di partenza – Gianfranco ci spiega che non tutti gli ulivi sono dichiarati e che per questo i danni potrebbero essere molto più alti – dicono che sono andati distrutti almeno 150.000 ettari di terreno. Significa che sono andati persi 5.000 posti di lavoro nella filiera dell’olio extravergine e 30.000 tonnellate di olio non prodotto ogni anno. Famiglie intere si sono ritrovate senza il proprio primario sostentamento: quella che ruota attorno all’olivo è una catena lunga e variegata. Le lavorazioni vanno dalla raccolta alla potatura e il prodotto che vediamo, l’olio, non è altro che il frutto del lavoro di decine e decine di mani che collaborano tra loro.

Ma ne usciremo? Cioè esiste una soluzione per la Xylella? Lo aveva già detto l’EFSA (Autorità europea per la sicurezza alimentare) nel 2019: non esiste una cura per debellare il batterio. «Ci troviamo in un’area con uliveti, pineta, macchia mediterranea. Il vettore si muove rapido e non ha senso massacrare le piante con trattamenti massicci. Sarebbe inutile». I tentavi, nel tempo, ci sono stati, alcuni più naturali di altri. Gianfranco ci racconta che «si è tentato di agire con gli innesti. Però il problema è che se il batterio si va a replicare all’interno dei vasi e io metto una varietà, una varietà tollerante e resistente sull’albero già malato, non funziona comunque, perché le radici non riescono a far arrivare nutrimento in cima”. E allora che si fa? Ci si reinventa, come ha fatto OlivaMi.

Rinascita, innovazione, solidarietà

OlivaMi è un’associazione senza scopo di lucro che riunisce diverse aziende agricole della provincia di Lecce. Il suo scopo è quello di riforestare le campagne del Salento distrutte dalla Xylella, restituendo lavoro, storia e tradizioni agli agricoltori. E pure un Olio Extra Vergine di Oliva buono.

olivo

Tuttavia l’aumento dei costi e la lentezza della burocrazia impedisce che questo avvenga in maniera semplice e veloce, basti pensare che lo sradicamento di una singola pianta costa circa cento euro, per non parlare dell’aratura e delle spese di cura. Per questo motivo OlivaMi si rivolge alla comunità, vicina e lontana: in fondo la terra non appartiene a nessuno, la terra è di tutti.

Il progetto dell’Associazione si fonda sul principio dell’adozione: con poco più di 30 euro è possibile infatti adottare a distanza (basta andare sul sito) uno o più olivi Salentini, ricevendo in cambio una fornitura annuale di olio EVO dalla provenienza e dalla qualità certificata. Chi adotta viene costantemente aggiornato sullo stato della pianta e, addirittura, quand’è il momento di raccoglierne i frutti, OlivaMi invita gli utenti a partecipare attivamente. «Invitiamo a partecipare fisicamente ad ogni fase, fino all’imbottigliamento. Cerchiamo di coinvolgerli anche con giornate di degustazione dell’olio» ci racconta Simone Chiriatti, consulente dell’Associazione.

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La domanda sorge spontanea: «Cosa vi fa pensare che i nuovi alberi sopravvivranno?» Partiamo dal presupposto che, come abbiamo detto, una cura non c’è. Ma «le varietà di olivo che stiamo piantando adesso sono diverse da quelle autoctone, quelle storiche come l’Ogliarola leccese e la Cellina di Nardò, che si sono dimostrate poco resistenti e propense a far riprodurre al proprio interno il batterio. Ad oggi si prediligono le varietà di Leccino o Favolosa, che si sono dimostrate particolarmente resistenti alla Xylella, e che perciò sono state scelte da OlivaMi per ripopolare le campagne salentine». Si tratta di specie che, seppur in contatto con la Xylella, impediscono di fatto al batterio di replicarsi, «ne tollerano la presenza». Ma il batterio potrebbe mutare, e di fatto, come si evince dal discorso di Gianfranco, potremmo ritrovarci punto e a capo. La soluzione c’è, ma fa a pugni con la burocrazia. «Sarebbe importante andare a sbloccare quelle varietà presenti in tutto il mondo che si stanno studiando (se ne occupa il CNR). Però succede questo: quando si trova magari una varietà o degli incroci di varietà che possono davvero resistere al virus, l’iter di approvazione è talmente lungo che passano degli anni. E intanto il virus muta, e il lavoro fatto poi potrebbe non servire più».

Al momento quindi quelle di Favolosa e di Leccino sono le uniche piante che gli agricoltori sono autorizzati a maneggiare. «Siamo in una situazione d’emergenza, le leggi andrebbero cambiate». Soprattutto adesso, in piena emergenza climatica. Gli olivi, di fatto, sono collegati anche a questo.

Ogni albero di ulivo assorbe una grossa quantità di CO2, grazie alla sua folta chioma. Secondo OlivaMi negli ultimi 5 anni il tasso di inquinamento è aumentato dell’8%. Ogni ettaro di Ulivo sottrae all’atmosfera 9,5 tonnellate di CO2 ogni anno. La sua imponente struttura (vi siete mai seduti sotto un albero d’olivo?) offre ombra a diversi metri di suolo. «L’olivo creava ombra al terreno. Ma con queste temperature, che stiamo affrontando già da anni e senza la copertura degli alberi, il suolo raggiunge i 70 gradi. In pratica l’acqua che butti per irrigare evapora. Il caldo brucia tutta la sostanza organica del terreno, e per poter rendere di nuovo quel suolo coltivabile ce ne vuole di lavoro», ribadisce Alessandro Coricciati.

Lasciare un futuro

Dal mio itinerario fra gli ulivi salentini, di cui sono ormai abituata a vederne una versione secca e decadente, c’è una cosa che mi sono portata dietro. Le parole di Simone, Alessandro, Gianfranco, e tutte le persone che ho incontrato sono cariche di fatica. Non è però tutto qui. Prima di andare via dal capannone dove OlivaMi organizza tutto il suo lavoro, prendendosi cura dei piccoli olivi che saranno poi piantati nel terreno, chiedo ancora un’ultima cosa: «perché fate tutto questo?».

Di getto, senza pensarci nemmeno un secondo, intento a sistemare gli adesivi sui vasetti appena arrivati, Stefano Presicce, consulente commerciale agricolo, ci risponde così: «Per lasciare un futuro come altri lo hanno lasciato a noi». Lo ripete più volte, con una convinzione tale che convince anche me. È vero, come dice Alessandro, che i più piccoli non vedranno mai degli ulivi secolari, che impiegano appunto centinaia di anni a diventare forti e robusti com’erano prima che tutto accadesse. Per molti bambini è normale così, che quell’albero abbia quel colore, e che non abbia foglie. E non è giusto.

anziani con olivi
Foto di repertorio\lavoratori e lavoratrici raccolgono olive

«Mio padre stesso ha speso un sacco di soldi per sistemare i terreni, per dargli la vita. Non si è tolto degli sfizi, non ha mai viaggiato, proprio perché in quella terra c’era tutta la sua passione. Dopo una vita di lavoro, vedere quegli alberi secchi… C’è chi ha mantenuto la sua famiglia, ha cresciuto i suoi figli, ha fatto le case per i suoi figli grazie agli olivi. E quando ti trovi davanti a questo triste spettacolo…come fai? È normale che per un certo periodo ti cadono giù le braccia, non sai come affrontare la situazione. Però poi una risposta devi avercela, una reazione. E in questo contano specialmente le aziende più giovani, che hanno molta più forza per reagire. Possiamo essere l’esempio, la miccia, per molte altre persone».

[di Gloria Ferrari]

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2 Commenti

  1. Sono originario di Matino, un Comune nel cuore del Salento.
    È un vero disastro, ve lo garantisco.
    Decenni di storia agricola cancellati in poco tempo.

  2. Sarò complottista ma son quasi certo che questo batterio la xililya sia stata introdotta da qualche furbacchione di tecnico legato a politica o massoni per poter permettere a paesi mediterranei di vendere il proprio olio come l’appalto salva Algeria,dove si favorisce il loro olio a prezzi stracciati e non concorrenziali da aziende produttrici italiane.io lo facevo di mestiere raccolta ,potatura e frangetta di oliva e so bene la fatica che si fa,e la quantità che si ottiene,ma ripeto son convinto di questa manovra ennesima,studiata a tavolino da qualche ben pensante per poter introdurre olio di scarsa qualità da altri paesi,per così mandare alla fame i.grossi produttori dell’oro verde del sud.

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