«In Italia, ogni anno, migliaia di persone vengono arrestate e processate pur essendo innocenti. Il processo è già una pena, che colpisce l’imputato, ma anche la sua famiglia, i suoi amici, il suo lavoro. Per questo non deve trascinarsi all’infinito, in appelli e contro-appelli. Quando governeremo noi, le sentenze di assoluzione, di primo o di secondo grado, non saranno appellabili». Così ha parlato sul suo profilo Instagram il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, nella cornice della consueta rubrica “pillole del programma di Forza Italia”. «Un cittadino, una volta riconosciuto innocente, ha diritto di non essere perseguitato per sempre – ha sostenuto il Cavaliere – anche perché perseguitare gli innocenti significa lasciare i veri colpevoli in libertà». Parole che puntano ad apparire piene di buon senso, tracciando una soluzione ad un problema reale – quello della lentezza dei processi – ma proponendo una via di uscita potenzialmente utile al Cavaliere stesso e con noti profili di incostituzionalità.
Non è la prima volta che la proposta di rendere inappellabili le sentenze di assoluzione entra nell’agenda politica italiana. Per comprenderne i possibili effetti da un punto di vista tecnico, è opportuno considerare due importanti precedenti.
Il primo è quello della Legge Pecorella (dal nome del suo proponente, il deputato di Forza Italia Gaetano Pecorella, amico e avvocato di Berlusconi), che venne approvata nel dicembre 2005 dall’allora maggioranza di centro-destra guidata dal Cavaliere. In quel provvedimento si stabiliva che il pm non potesse appellare le sentenze penali di assoluzione, lasciando spazio alla sola possibilità di revisione del processo in Cassazione (ovverosia con la sola presentazione di nuove prove). Rimandata alle Camere dall’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che nutriva forti dubbi sulla sua costituzionalità, fu ripresentata e nuovamente approvata nel 2006. Ciampi fu a quel punto costretto a promulgarla, ma l’anno successivo la Consulta la bocciò in quanto incostituzionale. La legge Pecorella è considerata una delle leggi ad personam dei cui effetti Berlusconi si volle servire nella sua vita da imputato: alla sbarra per corruzione al processo Sme, quando il provvedimento fu approvato il Cavaliere era infatti stato prosciolto in primo grado per prescrizione grazie alla concessione delle attenuanti generiche, che avrebbe potuto perdere in Appello. La stessa proposta, con qualche lieve modifica, fu poi inserita nella relazione redatta nel maggio 2021 dalla Commissione Lattanzi, organismo creato dalla Ministra della Giustizia Marta Cartabia per elaborare proposte di riforma del processo penale. Tra queste, vi era appunto la cancellazione della possibilità per il pubblico ministero (ma anche per le parti civili) di fare ricorso contro sentenze di proscioglimento, di non luogo a procedere e anche di condanna. All’interno della relazione, il gruppo di lavoro che la redasse spiegò che si proponeva “di ridefinire l’appello quale strumento di controllo nel merito della sentenza di primo grado a favore dell’imputato”.
I contenuti della proposta di Berlusconi, applauditi dagli alleati di coalizione e appoggiati con convinzione dal “Terzo Polo” di Calenda e Renzi, paiono però stridere con lo spirito della Costituzione e, nello specifico, con vari articoli della Carta: la Legge Pecorella, infatti, fu cassata dalla Consulta per la violazione dell’art.3 (principio di eguaglianza), dell’art. 24 (in cui si afferma che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”), dell’art. 111 (che stabilisce “condizioni di parità” tra le parti del processo) e l’art.112 (che delinea i vincoli posti dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale da parte del pm). Difficile, dunque, non tenere conto di questi criteri, a meno che l’intenzione delle forze politiche che hanno sposato la proposta non sia quella di entrare “in tackle scivolato” sulla Carta Costituzionale al fine di modificarla in senso “iper-garantista”. Un progetto estremamente complesso, anche e soprattutto per il fatto che potrebbe essere letto, da un punto di vista simbolico e fattuale, come un intervento punitivo nei confronti dei pm e favorevole ai “soliti” colletti bianchi. A questo proposito, giova ricordare che Silvio Berlusconi, il quale attende per l’autunno la sentenza del Tribunale sul procedimento principale del Ruby Ter, ha appena ricevuto un’assoluzione nel filone parallelo che si svolge a Siena.
Intanto l’ANM, organismo rappresentativo dei magistrati italiani, ha promesso battaglia. «Il tema è stato già affrontato dal Legislatore nel 2006 con la legge Pecorella, che ha visto un anno dopo la bocciatura da parte della Corte Costituzionale. Dell’inappellabilità delle sentenza se ne può discutere, ma non nei modi in cui è stata rappresentata in queste ore. Non è certo questa la soluzione ai problemi della giustizia», ha dichiarato Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione. «Se un processo si conclude con un’assoluzione – ha riferito – non si può pensare che si tratti di malagiustizia: i processi si fanno per accertare i fatti. Non è accettabile questo modo di ragionare, i processi vanno fatti per accertare la verità storica che non si conosce all’inizio».
Che il farraginoso sistema della giustizia abbia bisogno di riforme strutturali trova d’accordo la stragrande maggioranza dei partiti e dei cittadini italiani. Ma cavalcare il malcontento generale nutrito dai più nei confronti della magistratura per debordare dai principi sanciti dalla Costituzione appare estremamente azzardato. Per usare un eufemismo.
[di Stefano Baudino]