giovedì 21 Novembre 2024

Stato-Mafia: il boss Provenzano fu protetto dai carabinieri del Ros

I carabinieri del Ros, nel periodo in cui la mafia palermitana metteva a ferro e fuoco l’Italia con i suoi attentati, volevano “proteggere” il capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, favorendo la sua latitanza “in modo soft”. E’ questo il dato clamoroso che emerge dalla sentenza di Appello al processo “Trattativa Stato-mafia”, in cui, a fronte delle condanne inflitte ai mafiosi, gli allora vertici del Ros dei Carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno sono stati assolti dalla Corte di Appello di Palermo dal reato di violenza o minaccia a corpo politico dello stato “perché il fatto non costituisce reato”, mentre l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri è stato assolto “per non aver commesso il fatto”. In primo grado, al contrario, erano stati ritenuti tutti colpevoli, subendo condanne molto pesanti.

In attesa dell’eventuale ricorso in Cassazione della Procura generale, dunque, gli uomini dello Stato imputati al processo trattativa Stato-mafia sono stati dichiarati innocenti. Eppure, come spesso accade, anche tra le pieghe delle sentenze di assoluzione si nascondono elementi di verità estremamente salienti, rimasti estranei al patrimonio conoscitivo dell’opinione pubblica, che ora potrà farsi un’idea su quanto accadde negli anni più caldi della storia repubblicana.

L’inizio della trattativa

La “Trattativa Stato-mafia” venne aperta nell’estate del 1992, dopo la morte di Salvo Lima e Giovanni Falcone, quando i carabinieri del Ros, organo investigativo che ha tra i suoi compiti principali la cattura dei latitanti, ‘allacciarono’ l’allora capo di Cosa Nostra Totò Riina. Lo fecero tramite Vito Ciancimino, politico democristiano corleonese e mafioso, “con il dichiarato intendimento di tentare di instaurare, attraverso lo stesso Ciancimino, un dialogo con i vertici mafiosi finalizzato a superare la contrapposizione frontale con lo Stato che i detti vertici mafiosi avevano deciso dopo l’esito del maxi processo e che era culminata già, in quel momento, con la gravissima strage di Capaci”, scrivono i giudici. L’invito al dialogo venne subito “accettato” da Riina, che si mostrò subito soddisfatto nel constatare che illustri esponenti delle istituzioni gli offrissero margini di trattativa: il padrino corleonese rispose infatti formulando un lungo “papello” di richieste, tra cui la cancellazione del 41-bis, la riforma della legge sui pentiti e la chiusura delle supercarceri, dettando le sue condizioni per la ‘pace’. Per la Corte d’Assise di Appello di Palermo, a differenza di quanto statuito in primo grado, i carabinieri posero in essere quelle condotte per “la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale e di tutela di un interesse generale – e fondamentale – dello Stato”: il loro obiettivo, secondo la Corte, sarebbe dunque stato quello di fermare le stragi, ma i giudici non si esimono dal definire “improvvida” quell’iniziativa.

In quella fase, Cosa Nostra era divisa in due, poiché la strategia stragista di marca riiniana non trovò una totale condivisione fra i membri della Cupola: alla fazione più violenta diretta dallo stesso Riina, che vedeva tra le proprie file boss del calibro di Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro, Giovanni Brusca e i fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, si contrapponeva infatti l’ala “moderata” dell’organizzazione, che si opponeva al disegno stragista e trovava in Provenzano la sua voce più autorevole.

Il “disegno” del Ros

Pochi mesi dopo aver accettato l’invito al dialogo, nel gennaio 1993 Totò Riina venne catturato dagli stessi carabinieri del Ros: dopo l’arresto, in una vicenda che è stata al centro di un processo terminato con le assoluzioni degli uomini delle istituzioni (in quel caso, i Ros Mario Mori e Sergio de Caprio, alias Capitano Ultimo) “perché il fatto non costituisce reato”, i carabinieri convinsero la Procura a non predisporre l’irruzione nel covo del boss e, deviando dalle direttive dei magistrati, decisero di disattivare il giorno stesso della cattura di Riina la sorveglianza dello stabile. Secondo i giudici della Corte d’Assise di Appello al processo “Trattativa”, le “sconcertanti omissioni” che caratterizzarono quell’arresto furono dovute al fatto che i carabinieri volevano “lanciare il segnale di buona volontà e di disponibilità a proseguire sulla via del dialogo” alla fazione ‘moderata’ capeggiata da Provenzano, divenuto capo dell’associazione mafiosa, con un gesto dal significato “soprattutto simbolico”.

Secondo la Corte, infatti, “Il disegno” del Ros era “quello di insinuarsi in una spaccatura che si sapeva già esistente all’interno di Cosa Nostra e fare leva sulle tensioni e i contrasti che covavano dietro l’apparente monolitismo dell’egemonia corleonese, per sovvertire gli assetti di potere interni all’organizzazione criminale, assicurando alle patrie galere i boss più pericolosi e favorendo indirettamente lo schieramento che, per quanto sempre criminale, appariva tuttavia, ed era, meno pericoloso per la sicurezza dello Stato e l’incolumità della collettività rispetto a quello artefice della linea stragista. Un disegno certamente ambizioso e che si collocava in posizione intermedia tra la vera e propria ‘trattativa politica e una mera ‘trattativa di polizia’, perché richiedeva, almeno in prospettiva, qualcosa di più che non ciò che oggi, ma non solo oggi, potrebbe definirsi favoreggiamento. Il possibile negoziato aveva come interlocutore, per il tramite di Vito Ciancimino, non già i vertici mafiosi, – scrivono i giudici – genericamente intesi, o addirittura Salvatore Riina, bensì i capi di quella componente dell’organizzazione mafiosa che fosse disponibile e interessata a defenestrarlo, per insediare al suo posto una leadership per sua vocazione e convinzione propensa a cercare il dialogo per potersi dedicare proficuamente allo sviluppo dei propri affari, piuttosto che attaccare frontalmente lo Stato in tutte le sue articolazioni”.

Insomma, l’obiettivo dei carabinieri era quello di favorire una delle due fazioni della mafia palermitana, quella guidata da Provenzano, ritenuta più incline a rimanere “fedele e ligia alla strategia della sommersione”, dal momento che dava segno di optare per la cura ‘silenziosa’ dei propri affari illegali piuttosto che per l’appoggio alla linea stragista. “Esclusa qualsiasi ipotesi di collusione con i mafiosi, se Mori e Subranni potevano avere interesse a preservare la libertà di Provenzano, ciò ben poteva essere motivato dal convincimento che la leadership di Provenzano, meglio di qualsiasi ipotetico e improbabile patto, avrebbe di fatto garantito contro il rischio del prevalere di pulsioni stragiste o di un ritorno alla linea dura di contrapposizione violenta allo Stato”. Secondo quanto sancito dalla Corte, infatti, “vi erano indicibili ragioni di interesse nazionale a non sconvolgere gli equilibri di potere interni a Cosa Nostra che sancivano l’egemonia di Provenzano e della sua strategia dell’invisibilità o della sommersione almeno fino a che fosse stata questa la linea imposta a tutta l’organizzazione. Un superiore interesse spingeva ad essere alleati del proprio nemico per contrastare un nemico ancora più pericoloso”.

Una statuizione singolare, che ha già scatenato il dibattito, portando illustri esponenti della società civile, della magistratura e dell’attivismo antimafia ad avanzare i seguenti interrogativi: a prescindere dal dato squisitamente penale, può davvero essere considerato legittimo, da un punto di vista etico e morale, che importanti esponenti delle istituzioni di un Paese democratico decidano di “coabitare” con una fazione di un’associazione criminale di stampo mafioso solo perché ritenuta ‘meno violenta’ di un’altra? Nella cornice della lotta alla mafia, definita sempre “senza frontiere” dagli esponenti della nostra classe dirigente, è possibile ragionare sulla base del concetto di ‘male minore’, considerando soprattutto che, nel caso di questa “improvvida iniziativa”, il risultato sembra tra l’altro non essere stato raggiunto? Occorre infatti ricordare che Cosa Nostra, dopo l’apertura della trattativa, non placò affatto la sua sete violenta e ricattatoria: quando, il 19 luglio 1992, la mafia uccise Paolo Borsellino a Palermo, Riina aveva già “accolto” l’invito al dialogo dei carabinieri (anche se i giudici di Appello, a differenza di quelli di primo grado, non individuano la trattativa come causa accelerante dell’eccidio); nel 1993, dopo l’arresto di Riina, le bombe esplosero poi nelle città di Roma (il 14 maggio e il 28 luglio), Firenze (27 maggio) e Milano (27 luglio), provocando la morte di 10 persone, tra cui le piccole bambine Nadia e Caterina Nencioni, e il ferimento di decine di individui.

Una protezione “soft”

Secondo i giudici, che motivano le assoluzioni, gli imputati non avevano dunque “nessun interesse neppure indiretto a brandire la minaccia mafiosa come strumento di pressione sul Governo per condizionarne le scelte in una situazione di costrizione, quale sarebbe stata la prospettazione di nuove stragi se non fossero state accolte le richieste di sorta di dialogo o di intesa a distanza soccombesse nella competizione con lo schieramento antagonista, e che quindi a prevalere fosse la strategia più sanguinaria e violenta: come sarebbe accaduto se i capi della componente più moderata fossero stati messi fuori gioco da improvvide catture o arresti”. Occorreva dunque mettere al sicuro Provenzano per ‘disinnescare’ gli accoliti di Riina e i loro violenti piani strategici. “Ecco perché, il Ros, lungi dal disinteressarsi delle indagini mirate alla cattura di Provenzano, ne avrebbe fatto, apparentemente, un obbiettivo prioritario del proprio impegno investigativo in Sicilia, finendo per acquisire una sorta di monopolio di quelle indagini. Conoscere la rete di favoreggiatori era essenziale per potere esercitare comunque una pressione sul boss corleonese, e alimentare in lui la consapevolezza che i Carabinieri avessero la possibilità e la capacità di porre fine alla sua latitanza, e tuttavia non l’avrebbero fatto finché vi fosse stata una convenienza in tal senso”, scrive la Corte. “Insomma, si voleva ‘proteggere’ Provenzano, ossia favorirne la latitanza in modo soft, e cioè limitandosi ad avocare a sé vari filoni d’indagine che potevano portarne alla cattura, ma avendo cura al contempo di non portare fino in fondo le attività investigative quando si fosse troppo vicini all’obbiettivo; ma tutto ciò non già perché, in caso di trasgressione di un fantomatico patto, l’altro contraente, avrebbe riattivato lo stragismo, bensì perché la caduta di Provenzano che avrebbe inevitabilmente fatto seguito ad un suo arresto, avrebbe favorito il riemergere delle pulsioni stragiste mai del tutto sopite in Cosa Nostra”.

Ilardo e il mancato blitz

In questa sentenza si inserisce dunque un tema scottante, che ha attraversato numerosi processi incentrati sulle presunte o effettive interlocuzioni tra gli uomini dello Stato e i membri di Cosa Nostra: la lunghissima latitanza di Bernardo Provenzano, durata 43 anni e terminata con l’arresto del boss ad opera della squadra mobile di Palermo l’11 aprile del 2006.

In particolare, nel 2008 gli ex ufficiali del Ros Mario Mori (all’epoca dei fatti vicecomandante con responsabilità dell’attività operativa del reparto) e Mauro Obinu furono rinviati a giudizio con l’accusa di favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra per la mancata cattura di Provenzano nel 1995, quando un coraggioso infiltrato, Luigi Ilardo (nome in codice “Oriente”), tramite il colonnello Michele Riccio aveva fornito loro indicazioni sul casolare di Mezzojuso in cui il capo di Cosa Nostra stava trascorrendo la sua latitanza e dove riuscì addirittura a organizzare un incontro col padrino corleonese. Mori e Obinu furono assolti “perché il fatto non costituisce reato”: “Le condotte (delle quali, comunque, vengono evidenziate le “zone d’ombra”) – si legge nelle motivazioni della quinta sezione penale della Corte di Appello di Palermo, pubblicate nel novembre 2016 – non sono univocamente idonee, singolarmente e complessivamente considerate, a dimostrare la coscienza e la volontà degli imputati di impedire la cattura di Provenzano”. Il mancato blitz di Mezzojuso fu dunque soltanto “il frutto di una, pur sicuramente colpevole, sottovalutazione dell’importanza dello spunto investigativo” e di “una condotta negligente e poco solerte”. Eppure, secondo la Corte,  “rimane davvero inspiegabile – né gli imputati lo hanno spiegato in qualche modo – perché tutte le attività di indagine susseguenti all’incontro di Mezzojuso furono compiute in modo tardivo, non coordinato e soprattutto burocratico, mediante l’invio di note a vari reparti, che fino a quel momento erano rimasti estranei alle indagini, assolutamente burocratiche e, soprattutto, senza che da parte degli imputati fosse dedicata l’attenzione che la particolare delicatezza del caso senza ombra di dubbio richiedeva. […] La scelta investigativa, discutibile e in definitiva rivelatasi vana e dunque errata, di puntare tutto solo sulla prospettiva di un nuovo incontro dell’Ilardo con il Provenzano, l’approccio sostanzialmente burocratico e sicuramente censurabile sul piano della solerzia investigativa nelle indagini per l’identificazione dei due favoreggiatori del Provenzano indicati dall’Ilardo, e infine il ritardo con cui il rapporto ‘Grande Oriente’ è stato inoltrato alla competente Procura, risultano indubbiamente essere condotte ‘astrattamente idonee a compromettere il buon esito di un’operazione che avrebbe potuto procurare la cattura di Bernardo Provenzano’”.

Alcuni mesi dopo, il 10 maggio 1996, pochi giorni prima di entrare ufficialmente nel programma di protezione per i collaboratori di giustizia, Luigi Ilardo venne ucciso dai mafiosi a colpi di pistola a Catania. L’omicidio Ilardo è, tra l’altro, ancora avvolto nel mistero per le presunte fughe di notizie che lo avrebbero originato. Dal giorno della morte del confidente all’arresto di Provenzano sarebbero passati altri 10 anni.

Un nuovo scenario

Le motivazioni di Appello al processo “Trattativa” irradiano quelle “zone d’ombra” di una luce del tutto nuova, smentendo, di fatto, le ricostruzioni difensive dei carabinieri, che mai a processo ammisero in propria difesa di aver deciso di favorire lo schieramento mafioso capeggiato da Provenzano, proteggendone la latitanza, con l’obiettivo di fermare le stragi. Anzi, il 5 marzo 2002, di fronte al pm Nino Di Matteo, l’imputato Obinu arrivò addirittura a dichiarare: “Noi abbiamo localizzato il casale (di Provenzano, ndr) ma consideri la difficoltà di entrare, in quel posto, in quanto era costantemente occupato da pastori, mucche e pecore”. Sostenendo, dunque, che la finalità del Ros fosse quella di catturare Provenzano, ma che gli ostacoli al perseguimento dell’obiettivo fossero esclusivamente di natura logistica. “Ma adesso non ricordo, nel senso che tenga presente che io non vivevo solo delle vicende del colonnello Riccio o di quelle di Palermo, io ero responsabile operativo di una struttura, quella del Ros, che è a livello nazionale, quindi avevo una serie di problematiche – affermò invece in sua difesa Mori, nel frattempo promosso generale e nominato capo del SISDE (il servizio segreto civile) -. Proprio per questo io avevo delegato alla fattispecie investigativa due ufficiali di cui mi fidavo e che potevano seguire con attenzione tutto lo sviluppo dell’indagine e mi fu detto che Ilardo aveva dato delle notizie così, adesso a entrare nel particolare non me le ricordo però, né probabilmente le ho chieste nemmeno io di sapere di più perché non mi compete… non era il mio livello di competenza”. Quando i giudici gli chiesero per quale motivo il luogo del summit non fu messo sotto controllo dal Ros, Mori rispose: “Intanto so che Obinu e forse Riccio insieme fecero dei sopralluoghi nei giorni successivi, ma molto, molto superficialmente; che poi si potesse mettere una telecamera, adesso bisogna vedere, perché siamo nel ’95, […] non so se noi avessimo in quel momento degli strumenti idonei a questo tipo di attività, e se non li avevamo noi, non ce li aveva nessun altro, almeno per quanto riguarda l’Arma dei Carabinieri, quindi penso che questa possibilità effettivamente non ci fosse.

Si trattò, dunque, soltanto di una “sottovalutazione dello spunto investigativo”, come scrissero i giudici nel 2016, o più probabilmente, stando a quanto emerso dalle motivazioni della sentenza “Trattativa”, ci fu dell’altro? Nella requisitoria del medesimo processo, nel maggio del 2013, il pm Nino Di Matteo affermò che “Mori e Obinu non furono collusi o corrotti o ricattati dalla mafia, ma fecero una scelta di politica criminale sciagurata: fare prevalere le esigenze di mediazione favorendo l’ala ritenuta più moderata di Cosa Nostra”. Una ricostruzione che, al netto della questione legata alle specifiche responsabilità penali dei Ros – gli imputati, lo ricordiamo, sono stati assolti in entrambi i processi – pare avere anticipato di quasi un decennio le risultanze della sentenza di Appello al processo “Trattativa”. E forse, a Di Matteo, dopo anni e anni di fango mediatico (basti pensare alla prospettiva negazionista di quasi tutti i giornali mainstream rispetto all’esistenza stessa della trattativa, già “storicizzata” da una sentenza del lontano 2012  divenuta definitiva) qualcuno dovrebbe chiedere scusa.

[Stefano Baudino]

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3 Commenti

  1. I protanisti dell epoca hanno condotto gli eventi in maniera parziale rispetto alle fazioni mafiose, al di la dei processi , la storia colloca la scelta, di preferire una fazione piuttosto che l altra, inopportuna e scellerata istituzialmente. Se invece avessero avuto ul coraggio di combattere, senza se e senza ma, la mafia oggi sarebbero degli eroi piuttosto che dei codardi.

  2. Stato uguale mafia mafia uguale stato,vorrei sapere a quei carabinieri o forze dell’ordine son così orgogliosi di difendere un criminale che ha contribuito a far fuori dei magistrati.vergogna vomitevole

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