giovedì 26 Dicembre 2024

Affondati dal ‘burnout’: in Italia migliaia di medici lasciano gli ospedali

Si stima che solo in Italia siano circa 15mila i medici sfiniti mentalmente e fisicamente tanto da scegliere di abbandonare il loro impiego o mettersi in aspettativa e la causa è uno stress cronico associato a qualsiasi dimensione lavorativa ma ben più imponente per chi svolge una professione nell’ambito della sanità. Si tratta della cosiddetta sindrome da burnout, la quale non riguarda solo medici o infermieri e non è esclusivamente connessa alla recente pandemia, per quanto questa abbia contribuito in negativo alla diffusione dei segni tipici del burnout (stanchezza, impotenza, sensazione di essere intrappolati, visione negativa, insicurezza, senso di sopraffazione e svuotamento, lentezza nel fare qualsiasi cosa).

È dal maggio del 2019, durante l’undicesima revisione del testo di riferimento globale per tutte le patologie (International Classification of Disease, ICD) che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha riconosciuto il burnout come sindrome e, nello specifico, come fenomeno occupazionale. Il termine deriva dall’espressione inglese to born out cioè letteralmente bruciarsi ma anche esaurirsi, se ne parla meno di quanto sia diffusa ed è invece importante avere chiaro cosa sia per contrastarne la diffusione e gli effetti. Il burnout viene definito come uno stato di esaurimento fisico ed emotivo strettamente connesso al mondo del lavoro, riscontrabile a seguito di uno stress prolungato. Si tratta dunque di un fenomeno diverso dallo stress lavorativo in senso stretto, che ha sintomi meno imponenti e duraturi della sindrome da burnout, una condizione che si protrae nel tempo e colpisce profondamente lo stato psicofisico di chi ne soffre.

Nel Regno Unito un’indagine ha dimostrato come dall’inizio della pandemia a marzo 2021 circa il 46% dei lavoratori si sia sentito più incline a livelli estremi di stress rispetto all’anno precedente. Ovviamente l’ospedaliero e simili rimangono ambienti in cui riuscire a evitare stress prolungato è più complesso, specialmente in un momento di crisi sanitaria. Anche a poco tempo dallo scoppio della pandemia di COVID-19 quasi il 60 per cento dei medici e degli infermieri statunitensi sperimentava un vero e proprio deterioramento (tipico del burnout), sensazione che poi influenza ogni sfera della vita di un individuo. Sempre negli Stati Uniti anche prima della pandemia quasi la metà dell’intera forza lavoro del Paese (circa il 43 per cento dei dipendenti) ha riferito di aver subito una qualche forma di burnout.

Essenziale è parlare della sindrome in quanto alle volte si trascura la problematica psicologica e si è portati a credere che il lavoro sia forzatamente connesso a un continuo stato stressante. Una convinzione probabilmente nata anche a causa di una struttura sociale ormai intenta a chiedere continuamente di performare e produrre, esattamente come si farebbe con delle macchine. Confrontandosi con chi in Italia ha sperimentato cosa voglia dire “to burn out” viene alla luce quanto, nonostante il Paese sia considerato al primo posto per quanto riguarda l’equilibrio vita privata e professionale, ci sia da agire col fine di garantire ambienti più consoni e che considerino innanzitutto il benessere del lavoratore.

Più che quanto si lavori il problema è, e soprattutto sotto Covid è stato, il come. Concentrandosi sulla sfera più colpita viene alla luce quanto la pandemia non abbia fatto altro che acuire problematiche già interne al sistema sanitario italiano. Tra la carenza di personale aggravata dalla sospensione dei sanitari non vaccinati, la mancanza di dispositivi medici di protezione specie nella prima fase, tagli economici e poca attenzione alla sfera psicologica di chi ogni giorno aveva a che fare con ansia generalizzata, un virus ancora sconosciuto, imposizioni dall’alto di chi non vive direttamente certi ambienti che più che controllare la pandemia hanno generato spesso panico e doppio lavoro per chi già era sommerso da responsabilità non indifferenti, molti di coloro che sui media e dai politici sono stati chiamati “eroi” sono poi crollati. E questa non è di certo una loro debolezza bensì una conseguenza di un sistema che consuma e nel farlo, abbassa la qualità e dimentica l’umanità. Un meccanismo che – con gli altri messi in atto – poi spinge la creazione e il successo di centri privati ai quali non tutti possono avere accesso. E se una sanità pubblica che funzioni bene è un diritto di tutti i cittadini: preservare chi lavora al suo interno dovrebbe essere una priorità.

[di Francesca Naima]

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