La scorsa settimana, nella notte tra il 12 e il 13 settembre, sono giunte notizie poco rassicuranti dal Caucaso dove una nuova guerra tra Armenia e Azerbaigian, sembrava sul punto di esplodere. Per tre giorni serrati combattimenti tra i due paesi hanno lasciato sul campo oltre 200 morti e migliaia di sfollati. Un bilancio che sarebbe potuto essere decisamente peggiore, se non fosse arrivato un fragile cessate il fuoco a fermare i due eserciti. Per la prima volta le truppe azere hanno attaccato all’interno del territorio armeno, una escalation evidentemente favorita dal contesto internazionale, visto che l’Armenia è alleata delle Russia e da Mosca in questo momento difficilmente potranno intervenire. Una regione del mondo a cui anche gli USA guardano con interesse, appena tre giorni fa – infatti – in visita nella regione vi è stata la speaker della Camera statunitense, Nancy Pelosi.
Armenia’s #Jermuk city after today’s #Azerbaijani targeted shelling. #warcrimes with clear purpose of willful killings & destruction of the civilian community – a recreational area, w/ lottourists. Results of 🇦🇿 and Armenophobia policies! pic.twitter.com/LlS986GaZ0
— Arman Tatoyan (@atatoyan) September 13, 2022
In realtà, definire una nuova guerra un eventuale conflitto tra le due ex repubbliche sovietiche non è del tutto corretto, dato che i due paesi da tre decenni si contendo la sovranità sul Nagorno-Karabakh, una regione abitata in maggioranza da armeni, all’interno dell’Azerbaigian. Le tensioni per il Nagorno-Karabakh risalgono ai primi anni ’90, quando a seguito di una guerra tra i due paesi, le milizie armene riuscirono ad ottenere non solo il controllo della regione ma anche di alcune aree limitrofe, causando lo sfollamento di migliaia di azeri che in quelle zone vivevano. Da allora il Nagorno-Karabakh e quei territori occupati sono stati amministrati da un governo locale supportato dall’Armenia. Nel 2020, a seguito di un imponente offensiva l’Azerbaigian riuscì a riottenere il controllo di tutte le zone che aveva perso negli anni ’90, oltre a riconquistare anche piccole parti del Nagorno-Karabakh stesso. La guerra, che durò poco più di un mese, causò la morte di 7.000 persone costringendo migliaia di armeni ad abbandonare le proprie case. Grazie alla mediazione della Russia, il 9 novembre 2020 i due paesi arrivarono a siglare un armistizio, che per garantirne la durata, prevedeva anche l’invio di un contingente di forze di pace russe nel Nagorno-Karabakh.
La sostanziale differenza tra gli scontri passati e quelli degli ultimi giorni è che i combattimenti questa volta non hanno interessato esclusivamente la regione contesa o le zone limitrofe, ma anche altri parti di territorio armeno, che mai erano state colpite dal conflitto. L’attacco del 13 settembre appare quindi come un azione chiaramente voluta da parte del governo azero che, con droni e artiglieria pesante, non ha esitato a ribadire al vicino che ora i rapporti di forza sono cambiati. Negli ultimi anni, infatti, le ricche riserve di gas e petrolio di cui l’Azerbaigian è ricco hanno fatto pendere l’ago della bilancia inesorabilmente verso Baku. Grazie ai combustibili fossili, il governo del presidente Ilham Aliyev (in carica dal 2003, e figlio di Gaydar Aliyev il precedente presidente) è riuscito a destinare sempre più fondi alla spesa militare.
Ad essere cambiato in sfavore dell’Armenia è anche il contesto internazionale, dato che Yerevan dalla propria indipendenza nel 1991 ad oggi ha potuto contare sul supporto di Mosca, che ora però si trova impegnata in Ucraina e che difficilmente potrebbe trovare ulteriori forze da inviare in difesa dell’alleato nonostante il patto di mutuo aiuto miliare tra i Paesi. Le evoluzioni dello scenario internazionale appaiono quindi decisamente favorevoli per l’Azerbaigian, e questa potrebbe essere la principale motivazione che ha spinto Baku a lanciare un simile attacco. In precedenza, infatti, gli scontri tra i due paesi, avevano interessato solo le zone contese, nell’ultimo caso invece stiamo parlando di quello che, oggettivamente, è un attacco ingiustificato contro un paese vicino. Dall’Azerbaigian, hanno motivato l’azione militare come una risposta alle ripetute azioni ostili di agenti sabotatori armeni. Appare tuttavia inverosimile che l’Armenia, dopo la cocente sconfitta del 2020, abbia alcun interesse ad alimentare un escalation militare contro un vicino decisamente più forte. Una perdita di influenza della Russia nel Caucaso di certo farebbe comodo alla Turchia, alleata dell’Azerbaigian. Difficile però pensare che le azioni dell’Azerbaigian siano dovute ad un “ordine” diretto di Ankara, dato che appaiono scelte dettate in larga parte dall’attuale contesto internazionale favorevole.
L’offensiva azera è arrivata negli stessi giorni in cui la Russia si trovava ad affrontare un imponente contrattacco ucraino, che ha portato alla riconquista di ampie zone di territorio che erano in mano dei russi. Da Baku, hanno quindi probabilmente valutato che, con Mosca impegnata in un altro fronte, anche il resto dei paesi dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (OTSC) avrebbero esitato a rispondere militarmente all’attacco azero. L’OTSC è un alleanza militare composta da Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan che tramite una clausola simile all’articolo 5 della NATO, sarebbe obbligata a fornire supporto militare nel caso uno dei paesi membri venisse attaccato. L’Armenia, nei giorni seguenti all’attacco ha provato infatti ad attivare tale clausola, ricevendo però una risposta molto flebile, dato che l’OTSC si è limitata a rilasciare un comunicato in cui si definiva preoccupata per l’evolversi degli eventi, ma senza impegnarsi nel fornire supporto militare.
Probabilmente in Azerbaigian hanno calcolato che anche dall’Occidente non sarebbero sorte obiezioni in merito ad un escalation militare per il Nagorno-Karabakh. La crisi energetica ha fatto sì che i rifornimenti azeri siano divenuti strategici per l’Unione, rendendo quindi improbabile che da Bruxelles si sarebbe andati oltre ad una generica condanna delle violenze. Anche da parte degli Stati Uniti non sono arrivate particolari condanne all’offensiva di Baku, se non una blanda critica che chiedeva lo stop alle violenze. Va però detto che, il 18 settembre, la speaker della Camera dei Rappresentanti, Nancy Pelosi, si è recata in visita diplomatica in Armenia. La Pelosi è il funzionario statunitense di grado più alto a recarsi in Armenia da quando il paese ha ottenuto l’indipendenza dall’Unione Sovietica nel 1991. Per gli Stati Uniti le difficoltà della Russia rappresentano un opportunità, in questo caso quella di ampliare la propria sfera d’influenza americana nel Caucaso, una regione storicamente sotto l’influenza di Mosca. La strategia americana potrebbe essere quindi quella di offrire una via di uscita all’Armenia attraverso una sua ricollocazione internazionale, abbandonando il campo russo.
U.S. House of Representatives Speaker Nancy Pelosi shedding crocodile tears during her visit to Armenia. pic.twitter.com/NB4scCdWot
— Clash Report (@clashreport) September 18, 2022
Anche le dinamiche interne rappresentano un fattore nell’analisi di questa spinosa questione. Dopo la netta vittoria del 2020, in Azerbaigian i toni si sono surriscaldati, il presidente Aliyev ha infatti annunciato l’intenzione di creare un corridoio autonomo (attraverso la regione armena di Syunik) che collegasse l’Azerbaigian con la Turchia. Inoltre, dato che il Nagorno-Karabakh si trova legalmente sotto la giurisdizione azera, ogni problematica relativa a quella regione sarebbe stata trattata come una semplice questione interna per l’Azerbaigian. Anche in Armenia le dinamiche interne hanno un peso specifico importante, nel febbraio 2021 il primo ministro Nikol Pashinyan aveva infatti denunciato un tentativo di colpo di stato da parte dei vertici dell’esercito. In Armenia infatti vi è un crescente malcontento verso il governo, che in seguito alle sconfitta militare del 2020 avrebbe fatto troppe concessioni all’Azerbaigian. Vi è quindi una concreta possibilità che la situazione tra i due paesi possa degenerare ulteriormente dato che, al momento, alla luce delle strumentalizzazioni interne e del contesto internazionale non vi è un piano concreto che possa trovare una soluzione stabile alla questione del Nagorno-Karabakh.
[di Enrico Phelipon]