martedì 5 Novembre 2024

Come gli uccelli rapaci stanno rivelando le concentrazioni tossiche nell’aria

Un recente studio sulle piume di aquile, gufi, falchi e altri rapaci ha rivelato che nell’aria ci sono sostanze chimiche tossiche che non sono state completamente testate per il loro impatto ambientale. Secondo i ricercatori questo sarebbe un grave segno di inquinamento diffuso e persistente. Essendo predatori di alto livello, la concentrazione di sostanze chimiche nei rapaci è particolarmente elevata a causa di un fenomeno chiamato biomagnificazione, secondo il quale le concentrazioni aumentano man mano che si sale nella catena alimentare. Questo significa che monitorando i rapaci, si possono scoprire quali sostanze stanno inquinando il mondo naturale.

L’inquinamento chimico, infatti, è un problema vasto e complesso, perché molte sostanze chimiche non sono testate in modo approfondito per il loro impatto ambientale e non sono monitorate di routine. L’analisi dei rapaci e degli altri predatori principali risulta -al momento- uno degli unici modi per capire quanto sia grave la situazione e come comportarsi di conseguenza.

«Ci sono circa 350.000 sostanze commercializzate in tutto il mondo e circa 100.000 di queste sono commercializzate nell’UE» afferma l’ecotossicologa Paola Movalli. “Di queste, solo circa 500 sono ben caratterizzate per quanto riguarda i loro pericoli e l’esposizione”. Questo significa che tutte le altre sono per lo più sconosciute agli esperti, lasciando un enorme vuoto per gli scienziati e per le autorità che devono decidere dove intervenire. “Non si può regolamentare qualcosa se non si sa se è un problema e perché lo è” afferma Daniel Lapworth, ricercatore dell’inquinamento delle acque sotterranee presso il British Geological Survey.

La maggior parte delle sostanze chimiche non studiate non è quindi soggetta a regolamentazione né tenuta sotto controllo. Gli scienziati, tuttavia, hanno iniziato a trovarne alcune nell’ambiente: nelle riserve idriche, nell’Artico e ora anche nei predatori principali come gli uccelli da preda. La presenza di queste sostanze, chiamate “contaminanti emergenti” (EC), è preoccupante perché mostra che queste si accumulano negli organismi viventi e non si decompongono facilmente. Infatti questo tipo di inquinamento è molto difficile da eliminare e può causare problemi per lungo tempo, anche per decenni. Per esempio, uno studio di quest’anno ha trovato ben 85 contaminanti in 30 aquile dalla coda bianca della Germania settentrionale, tra cui prodotti farmaceutici, fragranze al muschio, pesticidi e PFAS. Tra questi alcuni erano prodotti chimici vietati da tempo, come l’insetticida DDT, ancora frequentemente trovato negli animali selvatici dopo oltre 40 anni di restrizioni, molti erano CE. Ricerche come quelle di Movalli suggeriscono che l’esposizione è significativa e diffusa nell’ambiente, quindi non sorprende che non solo i rapaci siano esposti a molti PFAS, ma anche le persone. Secondo le stime, quasi tutti gli abitanti della Terra hanno PFAS nel sangue. 

Come nel caso dei rapaci, il biomonitoraggio può aiutare a fare chiarezza. L’epidemiologo ambientale Carl-Gustaf Bornehag dell’Università di Karlstad gestisce un ampio progetto di biomonitoraggio umano chiamato Selma sugli interferenti endocrini. In un articolo pubblicato su Science all’inizio di quest’anno, lui e i suoi colleghi hanno dimostrato come considerare il più ampio mix di sostanze chimiche che alterano il sistema endocrino a cui siamo esposti possa aiutarci a valutare meglio il rischio che ne deriva. “Oggi abbiamo un sistema di valutazione del rischio [delle sostanze chimiche] in cui prendiamo in considerazione un composto alla volta”, dice, “ma siamo sempre esposti a miscele molto complicate”. Il problema è che un’azione sufficiente sulle sostanze chimiche problematiche può richiedere decenni, sia per proteggere gli esseri umani che la fauna selvatica. “Quando una sostanza chimica viene limitata o vietata dopo anni di studi, l’industria la sostituisce semplicemente con un’altra simile” afferma l’ecotossicologa Paola Movalli. “Ci vogliono poi altri anni di studi per limitare la nuova sostanza – e la cosa si ripete all’infinito”.

Valutare tutte le sostanze chimiche in circolazione sarebbe però un lavoro estremamente impegnativo, opinione condivisa da Kristin A. Persson, fisica e chimica svedese americana,  e dall’Agenzia europea dell’ambiente. “L’afflusso costante di nuove sostanze che sintetizziamo è molto più rapido della nostra capacità di valutazione”, afferma la Persson, soprattutto su scala globale. L’esperta ha proposto una soluzione temporanea efficiente sul breve periodo: porre un tetto fisso alla produzione di sostanze chimiche, ispirandosi ai tetti alle emissioni nella lotta contro il riscaldamento globale.

[di Sara Tonini]

 

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