Domenica 25 settembre milioni di cubani si sono recati alle urne, chiamati ad esprimersi democraticamente su un tema che in nessun altro Paese mondiale era mai stato sottoposto al giudizio popolare: il codice di famiglia. I risultati non erano certi, ma ha prevalso il sì. Il 66,87% dei cubani ha approvato la riforma che equipara i diritti della coppie gay a quelle etero e aumenta le protezioni sociali per donne e minori. Cuba è definita una dittatura da tutti i governi occidentali. Qualcosa non torna, evidentemente. Anche perché a Cuba votare è normale: si vota per eleggere i parlamentari e, addirittura, ogni sei mesi i cittadini possono chiedere la rimozione dei deputati che ritengono non facciano bene il loro mestiere. La realtà di Cuba, una democrazia socialista, ci porta dritti al punto: non è che abbiamo una concezione tremendamente etnocentrica di democrazia, concependo con il termine in questione solo quella liberale, di stampo occidentale e a trazione americana?
Quello di democrazia è un concetto che ci è estremamente familiare, al punto da darlo per scontato. Ma in verità quella che noi chiamiamo democrazia non è che uno dei suoi volti possibili. Non è scontato, né previsto da chi il concetto di democrazia lo teorizzò prima nell’antica Grecia e poi nell’Europa pre-illuminista, che esso si risolva essenzialmente nel principio di delega né nella pratica parlamentare intesa come luogo dove siedono più partiti che si contendono il potere e il consenso. Quella che noi conosciamo, per darne una definizione più esatta, è la democrazia liberale parlamentare. Per questo può sorprendere sapere che esistono al mondo altri Paesi che si ritengono democratici pur non avendo un sistema multipartitico.
Partire dal dizionario: cos’è (realmente) una democrazia?
Analizzando la realtà cubana senza lenti ideologiche si può scoprire che i cittadini hanno diversi modi per influire sulla cosa pubblica e sulle decisioni. Una democrazia diversa, sulle cui peculiarità e i suoi limiti si può ovviamente discutere, ma che merita di essere conosciuta oltre il velo della propaganda. Il sostantivo della lingua italiana ‘democrazia’ deriva dal termine latino democratia che, a sua volta, deriva dal greco demokratia. Quest’ultima parola è formata dall’unione di demos, che significa popolo, e di krateo, che significa potere, comandare. Pertanto, l’etimologia del vocabolo ci indica che la democrazia è una forma di governo nella quale il potere viene esercitato dal popolo.
La democrazia viene spesso semplicisticamente definita come quel sistema in cui la volontà di tutti i suoi componenti conta ugualmente, senza distinzioni di ceto, ricchezza o altra discriminante. Una realtà nella quale tutti sono ugualmente rappresentati. In realtà non è esattamente così. Non è il pensiero del singolo a contare, ma l’aggregazione delle idee dei singoli: in altre parole, il singolo elettore non potrà portare nell’arena pubblica la sua personale concezione politica, al contrario dovrà scegliere tra diverse possibilità di delega, ovvero tra partiti che raggruppano idee e si fanno paladini di istanze comuni a una porzione più o meno grossa, più o meno definita, di cittadini. All’elettore non viene richiesto di esprimere direttamente il proprio pensiero, semmai la propria preferenza per uno o per l’altro pensiero collettivo.
Nelle democrazie liberali parlamentari vi è poi un’altra mistificazione del concetto originario di democrazia: la partecipazione alla vita politica non è continua, ma avviene una tantum. L’esercizio del potere politico avviene solamente in occasioni ben definite e distanti anni tra di loro, e si traduce sempre in una delega a un gruppo di politici di professione. Il popolo, quel demos richiamato nella stessa parola democrazia, ha esclusivamente potere di delega. Questa è la democrazia parlamentare.
Come possiamo subito rilevare, nell’essenza del termine non è contenuto alcunché che faccia riferimento né all’esistenza né al ruolo di uno o più partiti. È stata l’esperienza storico-intellettuale dell’Europa che ha portato alla democrazia partitica, tralasciando e combattendo molte forme alternative. Il sistema liberale entro il quale la democrazia occidentale si è sviluppato ha mantenuto in vita il potere dei notabili e di diversi livelli di élite per potere economico o per nascita a scapito di forme di partecipazione popolare più ampie e inclusive. Non a caso queste forme di governo stanno venendo riprese e sperimentate da Paesi di più giovane indipendenza e di diverso percorso storico, che cercano di trasformare il sistema-democrazia in forme che più si adattano alla loro esperienza. È dunque essenziale conoscere la storia di Cuba per poter comprendere appieno il suo sistema politico, perché è dalla sua storia che deriva il suo modello istituzionale.
Cuba è una democrazia?
L’isola di Cuba viene effettivamente additata in molti modi: come ultimo baluardo del comunismo, come esperimento fallito, come feudo del potere personalistico dei Castro e, soprattutto, come una dittatura. Analizziamo con attenzione la questione. Cuba appartiene al ventaglio di Paesi che nella seconda metà del XX secolo faceva parte del cosiddetto “Blocco orientale”, ovvero quei Paesi affiliati all’Unione Sovietica durante il periodo della Guerra Fredda. Di questi, è l’unico Paese che dopo il 1989 è rimasto realmente fedele al suo modello socialista, di cui ne ricalca alcuni elementi. È quindi facile vedere come Cuba appartenga, nella vulgata politica post-Muro di Berlino, quasi naturalmente a quell’asse del male di cui parlano gli Stati Uniti, e come tutta la retorica anticomunista degli anni caldi della Guerra Fredda ritorni quando si parla dell’isola maggiore delle Antille.
Cuba presenta effettivamente un sistema a partito unico, in cui le elezioni si svolgono in assenza di competizione partitica e i candidati sono a tutti gli effetti espressione del partito unico al potere: il partito comunista cubano (PCC). I deputati al parlamento monocamerale – l’Asamblea Nacional del Poder Popular – sono espressione dei diversi comitati municipali e provinciali dei Comitati di Difesa della Rivoluzione, che raggruppano le 168 municipalità dell’Isola. Più che come un partito unico, quello cubano è un sistema imperniato sulle organizzazioni di massa, che ricalcano tutte la medesima idea di socialismo ma che non sono dirette da un unico centro: a guidare le elezioni non è il partito unico, che esiste, ma è piuttosto una coalizione che parte dal basso della società e dai luoghi di lavoro. Il sistema cubano si autoproclama a sua volta “democratico”: la sua pretesa viene dal non riconoscere come esaustivo ed esclusivo il concetto di democrazia propugnato (e in alcuni casi esportato con la forza) dal mondo occidentale, rigettando il presupposto che la democrazia sia solo quella, come se questa avesse avuto un imprimatur divino oppure detenesse un copyright sul termine. Senza dunque entrare in questioni giusnaturalistiche, ci interessa sottolineare una questione più sottile: è cieco dogmatismo ritenere che un modello politico non possa avere deviazioni e sperimentazioni. Oltretutto quando si guarda alla condotta di altre supposte democrazie.
Le forme della partecipazione popolare a Cuba
È certamente vero che Cuba non presenta un sistema pluripartitico, ma altrettanto certo è che può vantare un sistema partecipativo estremamente capillare ed inclusivo: la candidatura alle cariche pubbliche non è subordinata al possesso di una tessera di partito ma alla semplice residenza in una delle circoscrizioni elettorali; la campagna elettorale è finanziata dallo Stato, i cui dipendenti si occupano di affiggere curriculum, foto e programma di ogni candidato nei luoghi di lavoro e di aggregazione pubblica. Una pratica che può lasciare perplessi, ma che garantisce in effetti che tutti i cittadini abbiano la possibilità di candidarsi, una facoltà che invece nei Paesi occidentali è specialmente in mano a coloro che possono permettersi di pagare le ingenti spese di campagna elettorale, escludendo di fatto i meno abbienti. I cittadini sono poi chiamati alle urne per scegliere il proprio candidato preferito.
Si trattasse di una democrazia occidentale, a questo punto, agli elettori non resterebbe che sperare che per i successivi anni i candidati eletti si dimostrino effettivamente coerenti nell’applicazione del programma promesso agli elettori, senza nessuna possibilità di controllarne l’azione né tanto meno di rimuovere i parlamentari che si mostrano inadeguati o trasformisti. Gli elettori cubani, invece, ogni sei mesi hanno la facoltà di valutare l’azione del candidato eletto e il potere di chiederne le dimissioni se il suo operato non li soddisfa; tutte le cariche cessano dopo 5 anni e devono essere riconfermate. Inoltre il salario degli eletti a cariche politiche non eccede il salario della loro attività precedente all’elezione, vale a dire che non esiste uno stipendio da “parlamentare” o da “assessore” (per usare termini più vicini a noi) ma viene semplicemente mantenuto il salario dell’attività lavorativa che l’eletto esercitava prima della propria elezione.
Nel 1976, con un referendum a voto diretto e segreto, il 97,7% dei cubani approvava la nuova Costituzione del Paese, con la quale venivano istituite le Assemblee del Poder Popular, il principale organo della democrazia rappresentativa cubana. Le Assemblee seguivano un modello decentrato a piramide, divise in Municipali, Provinciali e Nazionali, a partecipazione aperta. Nel 2019 si è provveduto tramite referendum all’approvazione della nuova Costituzione, che accompagnata a una rinnovata legge elettorale ha provveduto ad allargare ulteriormente le possibilità di partecipazione. È oggettivamente arbitrario bollare come dittatoriale un sistema che permette l’elezione diretta dei propri rappresentanti territoriali e nazionali, che li subordina non solo a un mandato temporale fisso ma anche al periodico giudizio popolare.
Una storia di assedio e sacrifici
Vi sono naturalmente motivi storici e politici per cui Cuba viene da sempre additata come una dittatura e le si nega lo status di democrazia. Va richiamata l’appartenenza al blocco socialista e il pericolo che ha rappresentato per gli Stati Uniti la presenza di un bastione comunista a poche miglia dalle sue coste, il rischio della perdita del controllo del Golfo del Messico e l’esposizione del territorio statunitense alla rappresaglia nucleare sovietica. Queste paure non hanno mai veramente abbandonato i vertici delle amministrazioni statunitensi, che ancora oggi portano avanti un sessantennale blocco economico, finanziario e commerciale contro l’Isola, con incalcolabili danni all’economia e al tenore di vita di migliaia di cubani: una politica peraltro condannata da anni ad amplissima maggioranza dall’Assemblea Generale dell’ONU.
La quotidiana situazione di assedio, il mantenimento dell’embargo economico-finanziario-commerciale, il susseguirsi di attacchi terroristici e di tentativi più o meno mascherati di golpe – passando anche per i piani più fantasiosi, come l’Operazione Mangusta – dal nome progettato dalla CIA e approvato dal presidente Kennedy che dal 1961 al 1975 portò al compimento di 5.780 (cinquemilasettecentottanta!) azioni terroristiche e 716 azioni di sabotaggio a infrastrutture cubane nel tentativo di rovesciarne il governo – assieme alla continua minaccia al proprio sistema istituzionale ha reso inevitabile un rafforzamento del controllo da parte del centro politico. La presenza di più partiti è sentita come pericolosa in un Paese che si percepisce, oggettivamente non senza oggettive ragioni, assediato dall’ingombrante vicino a stelle e strisce. Cuba sente di non poter permettere che un altro centro di potere intercetti il legittimo malcontento, trasformandolo in dissenso anche violento di piazza (come successo nel luglio 2021) al fine di rovesciare la Rivoluzione e smantellarne i traguardi raggiunti in sessant’anni.
Cuba è già sottoposta ad attacchi blandi, orchestrati da gruppi di potere statunitensi che tentano di fomentare una rivolta di piazza, non lesinando il ricorso a fake news e falsa informazione. Si può dunque affermare che una delle cause per cui Cuba ha adottato il suo sistema istituzionale è proprio l’ingerenza e il pericolo da parte statunitense, e la loro totale mancanza di scrupoli ad adottare tecniche e metodi, nel perseguire i loro fini, difficilmente definibili come democratici. Questo non significa affermare certo che a Cuba si trovi un sistema democratico privo di angoli oscuri, ma serve per comprendere la realtà delle cose: ammettere l’esistenza della stampa privata a Cuba, ad esempio, significherebbe niente meno che legalizzare i tentativi da parte del potere statunitense e delle multinazionali che controllano i media globali di orientare con milioni di dollari l’opinione pubblica locale. Un’analisi onesta del contesto non può sottovalutare questi dati di fatto.
Altri modelli sono possibili
In conclusione, abbiamo visto che è altamente sbagliato definire la democrazia come appannaggio esclusivo dell’Occidente. Non lo è dell’Europa in quanto culla della civiltà mondiale e non lo è degli Stati Uniti, autoproclamatisi campioni della democrazia. Come ogni prodotto umano, e politico-sociale in particolare, questa è un qualcosa in continuo divenire, che si arricchisce e cresce man mano a seconda del tessuto storico e della cultura intellettuale nella quale attecchisce. Così, possono esistere tante versioni di democrazia: abbiamo visto sorgere negli ultimi anni espressioni diverse, come “democrazia diretta” o “democrazia dal basso”, che ci ricordano che quello occidentale non è che un modello, frutto della storia e del pensiero storico europeo, con i suoi punti di forza e le sue innegabili mancanze. Allo stesso modo, altri modelli sono possibili: Cuba, pur rinunciando alla dialettica partitica, mantiene elementi di indubbia partecipazione democratica attraverso il contatto diretto tra popolo e centro politico, dove la funzione di aggregatore delle preferenze non è svolta dai partiti ma dalle organizzazioni di massa, come i Comitati per la Difesa della Rivoluzione.
In tal modo, la gestione della cosa pubblica viene portata nelle strade, tra i barrios (quartieri) e casa per casa, similarmente a quanto facevano in tempi ormai lontani le sezioni di partito. Con la sostanziale differenza che le questioni che interessano un quartiere prescindono dal possesso di una tessera e vanno discusse collegialmente tra tutti gli abitanti, e le loro suggestioni riescono, spesso, a raggiungere il vertice. Si tratta di una democrazia perfetta? Chiaro che no, come non lo sono quelle occidentali. Di certo l’arbitrio occidentale di dividere il mondo nettamente tra democrazie e dittature senza percepire alcuna sfumatura possibile è un falso intellettuale.
[di Rubén Ernesto Umbrello]
articolo molto interessante.
Informazione chiara -e altrove poco disponibile-, corredata di (ma, correttamente, ben distinguibile da) riflessione interessante e ponderata dell’autore.
Un ottimo articolo, grazie.
Grazie