Il 21 ottobre 1971, come tanti altri giorni, Antonella, Virginia e Ninfa escono tenendosi per mano dalla loro casa alla periferia di Marsala, dirette alla scuola Pestalozzi. Case popolari INA, un pugno di palazzine spoglie e tristi in via Mazara, per giunta iniziate e mai finite, perché nel frattempo la ditta era anche fallita e quindi le ha lasciate così, sospese come le vite di chi ci abitava dentro, tra il nulla e il mare. Casermoni sciatti e scarni come era un po’ tutta la città, nelle foto panoramiche dell’epoca. Lontanissima dai boom che altrove avevano trasformato il Paese, vicina – appena tre anni prima – al terremoto del Belice che si era portato via, oltre ad un numero imprecisato di anime (tutt’ora non c’è una cifra precisa, certamente diverse centinaia), anche le poche certezze di una valle che campava di terra e bestiame. Aziende poche, pochissime. Industrie praticamente zero.
Bimbe con gli occhi adulti
Era un’Italia ancora in bianconero, ma per molti aspetti uguale a quella di oggi. Antonella Valenti, 9 anni, con le cuginette Ninfa e Virginia Marchese (7 e 5 anni), accompagna a scuola la sorella Liliana per la campanella delle 13: già all’epoca, alle elementari c’era sovraffollamento e carenza di aule, i bambini erano costretti ai turni pomeridiani. Tre bambine che nell’unica foto rimasta, scattata in un’aula, sembrano già adulte. Piccole donne con le facce serie, gli occhi severi e penetranti. C’è più consapevolezza che gioco, in quegli sguardi. E in effetti erano molto più che tre bimbe, quando sono uscite di casa quel giorno. Erano la scorta di Liliana, la dolce e rassicurante protezione di chi, pur in età di giochi con le bambole, faceva già le faccende domestiche e passava i pomeriggi a giocare in strada, con pochi giocattoli e molta voglia di immaginarli.
È iniziata così, con una scena quotidiana, la storiaccia del Mostro di Marsala che in Italia è deflagrata con uno scoppio nucleare nell’opinione pubblica, non c’erano i social ma ne parlavano tutti e tutti avevano la loro ipotesi, ed è finita 31 anni dopo, nel 2002. Quando il mostro riconosciuto e condannato per l’omicidio di tre bambine – Michele Vinci – è uscito definitivamente di galera, ed è stato ingoiato dall’oblio di una nuova vita a Viterbo, dove faceva il giostraio e viveva con una fidanzata. Antonella, Ninfa e Virginia infatti, quel giorno, non sono mai rientrate a casa. Ad un certo punto nonno Vito, Vito Impiccichè, ha capito che c’era qualcosa che non andava e ha dato l’allarme. Sono iniziate subito le ricerche, tremila uomini tra poliziotti, carabinieri e volontari. Qualcosa di enorme, per l’epoca e anche per oggi, pensando per esempio a Yara Gambirasio.
Dai Corleonesi a Marsala
Solo che all’epoca, a Marsala, non c’erano mappe satellitari, cani molecolari ed esperti di laboratorio. C’era, appunto, un esercito di gente impegnata a cercarle, c’era una città che mormorava di tutto, dando la colpa a uomini neri o a depravati vari. C’era Cesare Terranova, da poco nominato procuratore di Marsala e da anni magistrato di punta nella lotta alla mafia, dopo i processi di Catanzaro e Bari, quello contro Liggio e i Corleonesi. Quello nel quale Totò Riina fu condannato per il furto di una patente, visto che tutto il resto fu demolito dalla Corte. Terranova guidava le ricerche delle bambine e diceva «sono preoccupato, penso al peggio». Lui, uno dei tanti uomini poi caduti nella lotta a Cosa Nostra che hanno anche, per coincidenza o per destino, incrociato la storia delle tre bambine di Marsala prima di finire col nome scritto sopra ad una lapide, nel cordoglio generale. C’era anche il caso, nella persona che si è imbattuta nel cadavere malridotto di Antonella, nei paraggi di una scuola abbandonata, in contrada Rakalia.
Era il 26 ottobre, cinque giorni dopo la scomparsa delle tre bambine. Il corpo malridotto di Antonella, rinvenuto da Ignazio Passalacqua, era parzialmente carbonizzato, qualcuno ha provato evidentemente a cancellarlo col fuoco. Aveva nastro adesivo sulla bocca, era stata tenuta in vita mangiando scatolette fino alla morte che è dovuta a soffocamento. In città e in Italia, tutti capiscono subito che la tragedia è solo all’inizio, e che nemmeno le altre due bambine sarebbero mai tornate a casa. Un benzinaio di origine tedesca, Hans Hoffman, racconta che nei giorni precedenti ha visto passare una Fiat 500 blu sulla strada per Castelvetrano. Si ricordava, dice, che ha visto volti di bambini dentro l’abitacolo, battevano le mani sui vetri della macchina. Si presenta poi un tale, Giuseppe Li Mandri, racconta che la macchina era sua e che stava andando coi bambini a trovare un parente in ospedale. Sua moglie lo smentisce, da possibile indiziato diventa una specie di mitomane. Trovare le cugine di Antonella sembra più difficile che trovare un ago in un pagliaio.
Il colonnello Dalla Chiesa indaga
Eppure, sono al lavoro fior di uomini. Cesare Terranova è affiancato da Lenin Mancuso, il maresciallo di polizia che lo ha accompagnato come un’ombra per tutta la vita, dal 1963, fino a quel 25 settembre 1979, qualche anno dopo i fatti di Marsala. Quando è andato a prenderlo sotto casa e gli ha ceduto il volante della 131, come Falcone anche a Terranova piaceva guidare l’auto di servizio, costretta poi a bloccarsi per una transenna in una via secondaria di Palermo, mentre spuntava fuori un commando con fucili Winchester e pistole in pugno: una pioggia di colpi, Mancuso ha fatto appena in tempo ad estrarre la Beretta d’ordinanza prima di essere crivellato, il giudice Terranova invece è stato finito con un colpo alla nuca. C’erano tutti e due, a cercare Ninfa e Virginia. E c’era un colonnello dei carabinieri che avrebbe fatto una grande carriera, prima di finire anche lui riverso e sanguinante sul sedile della sua A112, al fianco della moglie. C’era anche Carlo Alberto Dalla Chiesa, a Marsala, in quei giorni.
Le ricerche proseguono senza frutto, il cerchio però si stringe attorno allo zio di Antonella. Si chiama Michele Vinci, ha 31 anni, lavora come fattorino alla Cartotecnica San Giovanni di Marsala. È l’unico cliente della ditta lombarda che produce il nastro adesivo trovato sul cadavere di Antonella, e questo è il primo indizio che inchioda Vinci. Il quale ha una Fiat 500 blu uguale a quella vista dal benzinaio, che nel frattempo è tornato in Germania. E non ha un alibi per il giorno della scomparsa delle tre bambine: sua moglie riferisce che per tutta la giornata non l’ha visto. Vinci viene fermato, interrogato. Barcolla e poi crolla. Confessa tutto. Ammette di aver sequestrato e ucciso le tre bambine, aggiunge che ha perso la testa per Antonella e che quindi ha organizzato tutto, prendendo anche le sue cuginette. Rivela, infine, che i cadaveri delle due bimbe si trovano dentro un pozzo, in una delle cave di tufo, nel terreno di proprietà di Giuseppe Guarrato che in seguito verrà poi sospettato di complicità, arrestato e infine scarcerato.
Due cadaveri nel pozzo
Il sopralluogo conferma tutto, alle 5.45 del mattino, in contrada Amabilina, gli investigatori trovano i corpi senza vita delle due bambine. Trovano lo stesso nastro adesivo sui loro cadaveri, ci sono anche capelli biondi di una donna che non è mai stata identificata e che potrebbe essere stata la loro carceriera. Trovano anche pezzi di unghie nel tufo, il sospetto è che le due bambine siano state uccise altrove e poi buttate in quel pozzo, dentro un cunicolo. Lo strazio della famiglia è anche lo strazio del Paese, l’Italia intera, senza dirette tv o web ma con un’indignazione feroce, assiste ad una vicenda che da tragica diventa torbida, una matassa di ipotesi e dubbi, nonostante la piena confessione di Vinci. Che viene sottoposto a due perizie psichiatriche per accertare la sua capacità di intendere e di volere, con esiti altalenanti, e che da allora in poi sposta il focus su altre persone, accusando mandanti o complici per i tre omicidi.
È il caso di Franco Nania, direttore della Cartotecnica dove lavora Vinci, accusato da questo di essere il mandante del sequestro delle bambine per ritorsione contro la mamma di Antonella, ma che viene poi prosciolto. Oppure di Nicola Di Vita, zio di Ninfa e Virginia. Vinci racconta che è stato proprio Di Vita a invitarlo a bere un bitter, lo chiama in causa senza aggiungere altri particolari. Racconta che ha scritto una lettera ad un religioso, padre Fedele, che sa tutto e che poi morirà per cause naturali, dopo accertamento degli inquirenti, poco tempo dopo. Non pare convinto il pm Ciaccio Montalto che sostiene la pubblica accusa nel processo: proprio lui, il giudice antimafia a Trapani negli anni successivi. Un altro caduto sotto ai colpi dei sicari che per coincidenza o bizzarro scherzo fanno parte di questa storia, come Terranova, come Dalla Chiesa, Mancuso e perfino Borsellino, che nel 1989 ha riaperto (e poi chiuso) il caso del mostro di Marsala, sull’onda emotiva popolare della trasmissione Telefono Giallo che ne aveva parlato.
L’ipotesi della vendetta mafiosa
Ciaccio Montalto, ucciso a 41 anni da un commando di tre uomini una notte di gennaio del 1983, falciato sotto casa coi vicini che hanno sentito i colpi di mitraglietta e calibro 38 ma pensavano fossero cacciatori di frodo, ucciso senza una scorta a proteggerlo nonostante le minacce ricevute negli anni, era il magistrato che in aula fece condannare Vinci, pensando però che dietro al triplice e terribile delitto ci fosse altro. E cioè una specie di terribile ritorsione da parte di Cosa Nostra contro il padre di Antonella Valenti, per costringerlo a tornare in Sicilia, nel giro della droga dove si ipotizza fosse, dalla Germania dove era emigrato con la moglie per cercare lavoro, come tanti altri da Marsala in quegli anni. Altri, legavano il sequestro e l’uccisione delle bambine al sequestro di Luigi Corleo, capostipite dei potentissimi esattori Nino e Ignazio Salvo. La lunga mano di Cosa Nostra è rimasta come un’ombra fino alla fine della cupa vicenda, e in un certo senso si era stagliata fin dall’inizio, cioè dal giugno 1971, quando la Commissione Parlamentare antimafia si era dilungata sulla figura di Mariano Licari, potente boss della zona di Marsala dagli anni ’50. Non sono mancate nemmeno le morti strane, sospette, in stile Ustica. Giuseppe Li Mandri, il tizio che si era fatto avanti per negare ogni coinvolgimento, poco tempo dopo è caduto da un’impalcatura, lasciandoci la pelle. Morto anche il nipote 18enne di Giuseppe Guarrato, proprietario del fondo dove sono stati trovati i corpi senza di vita di Ninfa e Virginia: il ragazzo viveva proprio davanti al posto dove sono stati trovati i cadaveri delle due bambine, potrebbe aver visto tutto. Ma gli è stata fatale la caduta in un pozzo.
Michele Vinci, unico imputato, viene condannato all’ergastolo nel 1975 dalla Corte di Assise di Trapani, in appello la sentenza viene poi commutata in 29 anni di reclusione, confermati dalla Cassazione nel 1979. Nel carcere di Mistretta, dove lo zio di Antonella viene recluso, dalle guardie arrivano testimonianze inquietanti. Gli agenti della penitenziaria ricevono messaggi anonimi del tipo «o lo ammazzate, o vi ammazziamo noi». Il detenuto vive in pratica in un isolamento blindato e proseguirà a scontare la sua pena fino al 2002, quando appunto è diventato un libero cittadino dal passato inconfessabile e mai più evidentemente mondabile, nonostante l’espiazione.
[di Salvatore Maria Righi]
Un omicidio senza dubbio di colpevolezza non dovrebbe avvalersi di sconti di pena.