Un racconto norvegese, Il macinino che macinava in fondo al mare (in Fiabe norvegesi, Einaudi, 1962, pp. 227-31) e una fiaba proveniente dalla comunità rom di Grecia, Perché il mare è salato (in Storie e fiabe degli zingari, Tea, Milano 1989, pp.151-54) costituiscono un formidabile ponte per cogliere che cosa possa rappresentare l’acqua da un particolare punto di vista simbolico.
Diciamo subito che esse spiegano come l’acqua sia collegata all’idea di potere e di ricchezza illimitata ma anche come questo significato sia stato acquisito grazie all’incontro con il sale – il sale, ciò che raffigura tra l’altro il pagamento in denaro (il salario), la conservazione nel tempo, la saggezza (“cum grano salis”), la ospitalità ecc. Unendosi al sale l’acqua viene ad inscriversi nel dominio della estensione dei commerci, dell’esercizio del potere, nell’inarrestabile andirivieni di ogni bene materiale.
È pur vero che le fiabe si somigliano tutte: le fiabe sono rappresentazioni immaginifiche e metaforiche della vita, di ciò che c’è – o crediamo ci sia, o vorremmo ci fosse – nel mondo e di ciò che potrebbe accadere se alcune regole fossero sospese, se alcuni desideri potessero avverarsi.
La trama che accomuna le due fiabe in questione riguarda le sorti di due fratelli, uno ricco e l’altro povero; quest’ultimo, grazie a un incontro nel mondo sotterraneo con il diavolo, ottiene un oggetto magico – un macinino nel caso norvegese, una mela nel caso greco – mediante il quale qualsiasi cosa o bene può essere moltiplicato prodigiosamente. Ma dopo che il povero si è arricchito, anche il fratello già ricco vuole l’oggetto magico e ottenutolo (con la forza o comprandolo) non riesce tuttavia ad arrestarne il meccanismo. In tal modo, avviene che, una volta imbarcatosi su una nave e richiesto al macinino (o alla mela) di produrre il sale, la nave non regga il carico sempre crescente e finisca per affondare. “Il macinino è ancor oggi in fondo al mare e continua a macinare: è per questo che il mare è salato”.
La materia narrativa e simbolica di tale racconto trova il suo remoto antecedente nel mito scandinavo di Amleto, ricordato nell’affascinante volume di Santillana e von Dechend: “Nelle rozze e vivide immagini delle popolazioni scandinave Amleto si distingueva per il possesso di un mulino favoloso dalla cui macina ai suoi tempi uscivano pace e abbondanza. Più tardi, in tempi di decadenza, il mulino macinò sale; ora infine, essendo caduto in fondo al mare, macina la rocce e la sabbia, creando un vasto gorgo, il Maelstrom… ritenuto una delle vie che conducono alla terra dei morti” (Il mulino di Amleto, Adelphi 1989, p. 26). “Il luogo stesso… empie di idee perniciose la mente di chi guarda il mare dal precipizio e lo ascolta ruggire”: così afferma Orazio nell’Amleto di Shakespeare (I,4).
Il pensiero vola al racconto di Edgar A. Poe Una discesa nel Maelstrom (1844) dove si narra l’“iroso ribollimento dell’acqua”, la “convulsione frenetica” del mare del Nord, che si contorce “in gorghi innumerevoli e sterminati”. Ancora oggi, nei pressi della località di Saltstraumen, il vortice si ingrossa poderosamente quattro volte al giorno.
Nel racconto di Poe un vecchio pescatore riferisce al narratore il precipitare (con suo fratello: anche qui il retaggio fiabesco) insieme all’imbarcazione, nel vortice contornato “da una vasta cintura di spuma scintillante”; si trattava dell’abisso, già noto in tempi antichi, che si credeva penetrasse all’interno del globo. Ma lo sprofondare nel baratro, con quel cielo splendidamente terso in cui campeggia la luna e s’inarca l’arcobaleno, e che sovrasta i due malcapitati, assume a un certo punto i contorni di un viaggio su una superficie curva e si presenta come “l’albeggiare d’una speranza ch’era assai più conturbante”. Siamo di fronte a una discesa che ha anche i contorni dell’ascesa, contrassegnata dal richiamo all’aldilà (l’arcobaleno come ponte iniziatico): un viaggio nel profondo con finale ritorno alla superficie e salvataggio (di uno soltanto dei due fratelli).
A voler utilizzare i parametri di Santillana e von Dechend, si potrebbe suggerire che quella discesa vertiginosa contrassegnasse un momento di fusione e rigenerazione fra terra, acqua e cielo: a ben vedere, infatti, i richiami che troviamo nel racconto di Poe al numero sette, alla sfera e al cilindro, l’inclinazione di quarantacinque gradi impressa alla nave nel precipitare sono tutti dati che si adattano perfettamente a una descrizione del cielo (ad es. i sette pianeti e i gradi e l’ora che potrebbero indicare una collocazione astronomica ecc.), insomma a una avventura planetaria che parla di un mondo altro. Quanto all’immagine del gorgo, essa non fa che riflettere il moto interno dell’albero cosmico noto a vari miti – e dovuto alla precessione degli equinozi -, in cui si evidenzia l’inclinazione del cerchio dell’eclittica rispetto all’equatore e la connessa formazione di due spirali coniche attorno all’asse terrestre; quest’ultimo gira come una trottola con la punta al centro della terra cosicché, se prolungato fino al polo settentrionale celeste descrive attorno al polo settentrionale dell’eclittica, il vero ‘centro’ del sistema planetario.
La sfera celeste veniva di conseguenza immaginata come una macina ruotante e il Polo Nord come la boccola entro cui ruota ‘il ferro del mulino’. Per questo motivo il Maelstrom, conseguenza della rottura del mulino o dell’abbattimento dell’albero primordiale, veniva pensato come baratro sorgente e foce di tutte le acque.
L’acqua viene dunque saldamente coinvolta in una struttura cosmologica, nell’origine di ogni cosa ma anche nell’azione dell’onnipotenza divina. Torna alla mente Omero (Iliade, VIII, 13-16), quando Zeus minaccia colui che voglia sfidare gli dèi di gettarlo nel “Tartaro fosco/, lontano, dove il baratro sotto la terra è più fondo,/ tanto al disotto dell’Ade, quanto la terra dista dal cielo” oppure quando ancora Zeus viene presentato come colui contro il quale non vale “nemmeno la forza grande d’Oceano acque profonde,/ da cui tutti i fiumi e tutto intero il mare,/ tutte le fonti e i pozzi cupi traboccano” (XXI, 195-97).
[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]