Ha avuto inizio domenica 6 novembre la ventisettesima Conferenza delle Parti sul Clima (COP27). Ad ospitarla l’Egitto, nella turisticamente attrezzata Sharm el-Sheikh. Il nuovo vertice internazionale sulle questioni climatiche durerà quasi due settimane per concludersi venerdì 18 novembre. A partecipare, i delegati di circa 200 paesi membri della Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. Questi, 196 per la precisione, in quanto aderenti all’Accordo di Parigi, avranno quindi l’obiettivo di provare a concretizzarne l’attuazione. Tra polemiche e speranze, i punti da discutere sono molti, così come lo sono le questioni spinose da risolvere. Alla cerimonia di introduzione diversi gli interventi tra cui, immancabilmente, quello del segretario generale delle Nazioni Unite, António Guteress. «Il fallimento o il successo della COP27 – ha dichiarato il rappresentante dell’ONU – si misurerà su tre dimensioni. Il vertice deve essere il luogo in cui colmare il gap di ambizione, il gap di credibilità e il gap di solidarietà». Tre sfide indubbiamente rilevanti, peccato però che Guterres non abbia menzionato anche un certo ‘gap di coerenza’, caratteristica su cui effettivamente questa e le precedenti COP hanno dimostrato di avere più di una lacuna.
Il luogo
Forti carenze in termini di coerenza emergono già a partire dalla sede scelta per il vertice. L’Egitto, anche tralasciando i continui affronti ai diritti umani perpetrati dal regime di al-Sisi, è infatti tutt’altro che un paese degno di ospitare una Conferenza dal tale significato. E tanto meno è un paese impegnato nella lotta alla crisi climatica. Non che le nazioni selezionate dall’ONU per le COP sul clima debbano necessariamente eccellere in sostenibilità, ma sarebbe quantomeno auspicabile che diano il buon esempio per gli sforzi messi in campo. La Terra dei Faraoni, dal canto suo, negli ultimi anni si è solo impegnata a convertirsi in una delle nuove potenze gasiere a livello globale. Complici le volontà del suo dittatore e il conflitto tra Russia e Ucraina, l’Egitto è riuscito a conquistarsi un ruolo di primo piano nello scacchiere energetico regionale ed europeo. Le esportazioni egiziane di gas fossile sono infatti aumentate significativamente negli ultimi anni, fino a toccare quota 8 miliardi di dollari nel biennio 2021-2022. Secondo le stime sono poi destinate a crescere ancora, guidate dalla ricerca disperata di nuovi approvvigionamenti da parte dell’Unione Europea e grazie soprattutto ai progetti realizzati dalla multinazionale italiana ENI. In Egitto, non a caso, si trova più del 20% delle riserve di gas del Cane a sei zampe – ha reso noto un documento dell’organizzazione ReCommon – “per una produzione annuale che si aggira intorno ai 15 miliardi di metri cubi di gas, ovvero circa il 30% della produzione globale di ENI e il 60% di quella egiziana”. In questo senso, la vera differenza per il colosso italiano e per i suoi affari con la Repubblica araba l’ha fatta, nel 2015, la scoperta del giacimento Zohr, a oggi la più grande riserva di gas del Mediterraneo. Giacimento che, nonostante alcune dichiarazioni di facciata sulla questione dell’omicidio di Giulio Regeni, ENI non ha mai smesso di sfruttare e far fruttare. Insomma, interessi del Cane a sei zampe a parte, l’Egitto pare proprio che abbia priorità ben diverse dal contribuire alla lotta alla crisi climatica. Tra queste, anche l’imprigionare gli attivisti ambientali.
Chi partecipa
Il principale obiettivo di una COP sul clima è quello di garantire e concretizzare, di anno in anno, l’attuazione degli accordi fissati a Parigi nel 2015. Ovvero, assicurare che le temperature medie del globo non aumentino, nella migliore delle ipotesi, di oltre 1,5°C. Obiettivo che appare però sempre meno a portata di mano, anche e soprattutto alla luce degli inconcludenti risultati della COP26 di Glasgow. Evitare un’ulteriore accelerazione antropica del riscaldamento globale deve passare necessariamente da una drastica riduzione nelle emissioni di tutti quei gas in grado di schermare il calore amplificando il naturale effetto serra terrestre. Sul come farlo se ne sta parlando anche in questi giorni a Sharm el-Sheikh, tuttavia – e qui arriviamo ad una nuova contraddizione della COP27 – in assenza dei cosiddetti ‘grandi emettitori’. Alla 27esima Conferenza sul Clima mancano infatti i paesi che, da soli, emettono oltre il 43% delle emissioni globali di anidride carbonica. Stiamo parlando di Russia, Cina e India, tra le cinque nazioni in assoluto più impattanti sul clima insieme a Stati Uniti e Brasile. Come sia possibile, con questi presupposti, colmare il cosiddetto ‘gap di credibilità’ citato da Guteress non è dato saperlo. Ad oggi, Russia e Cina sono i Paesi con gli obiettivi meno ambiziosi per le emissioni nette zero, fissate al 2060 e al 2070 rispettivamente, mentre l’India, nonostante target più volenterosi, è comunque tra i maggiori emettitori. In sostanza, anche se dalla COP27 uscisse una qualche decisione rivoluzionaria in fatto di taglio alle emissioni, l’assenza di queste tre nazioni peserebbe comunque a tal punto da vanificare gran parte degli irrealistici impegni ipoteticamente presi. Fuori dai negoziati ha fatto invece discutere la decisione di includere la multinazionale Coca-Cola tra gli sponsor del vertice. Al riguardo, pronte le critiche delle associazioni ambientaliste, specie in virtù del fatto che il noto colosso statunitense è stato più volte descritto come il “più inquinante al mondo”. Coca-Cola produce infatti 120 miliardi di bottiglie di plastica usa e getta all’anno e il 99% dei polimeri, peggiorando sia la crisi della plastica che quella climatica, è prodotto con l’impiego di combustibili fossili.
Come partecipa
La probabilità che alla COP27 si arrivi a qualche accordo concreto è insomma tutt’altro che a favore del clima. Il motivo è semplice: anche chi partecipa sembra più determinato a fare discorsi di facciata infiocchettati di verde piuttosto che a cambiare realmente rotta. Tra il dire e il fare, infatti, qui ci passa più di un mare, e a confermare che la COP27 sia solo un’occasione per fare dello spudorato greenwashing politico e internazionale c’è più di un esempio. Basti pensare al crollo nel numero degli aderenti al Patto contro la deforestazione. Alla COP26 di Glasgow, 140 Paesi avevano promesso di eliminare la deforestazione dentro i propri confini entro il 2030. In questi giorni, alla COP27, bisognava passare dalle parole ai fatti. Tuttavia, non appena le azioni concrete da adottare sono state messe su carta, il numero di Paesi aderenti al Patto contro la deforestazione è calato vertiginosamente. Ora rimangono appena 25 Stati membri, i quali ospitano poco più di un terzo delle foreste globali. A tirarsi fuori anche Brasile e Congo, che ospitano sui loro territori quasi metà delle foreste tropicali del pianeta. Paradossali poi le trattative attorno alla delicata questione del sostegno ai paesi in via di sviluppo più vulnerabili agli effetti della crisi climatica. Prima ancora che la 27esima Conferenza sul Clima di Sharm el-Sheikh iniziasse ufficialmente, i delegati dei 196 Stati Membri hanno infatti passato una notte intera a discutere animatamente su questo punto fondamentale di giustizia e finanza climatica. Per la prima volta, anche in questo caso dopo Glasgow, la questione ha trovato spazio nel documento ufficiale, nel capitolo Loss&Damage. Capitolo che, tuttavia, alcuni delegati pare abbiano tentato di lasciar fuori dall’agenda 2022 di modo da evitare di trattare il tema o, comunque, di rimandarlo. Tentativo che, sebbene andato fortunatamente a vuoto, la dice lunga sui reali propositi dei partecipanti al vertice sul clima. Dovrebbe poi quantomeno far riflettere la modalità con cui molti rappresentanti delle nazioni siglanti l’Accordo di Parigi hanno scelto di raggiungere Sharm. Per dimostrare il proprio impegno climatico, molti politici e autorità internazionali hanno infatti scelto di raggiungere la sede della Conferenza nel modo più inquinante possibile, ovvero a bordo dei propri jet privati. E l’hanno fatto al pari dello scorso anno, quando almeno 400 di questi mezzi hanno raggiunto la sede scozzese della COP26. Un jet privato emette da 5 a 15 volte in più per passeggero rispetto a un aereo commerciale e fino a 50 volte in più rispetto a un treno, ma non dovrebbe sorprendere, che la coerenza non fosse di casa alla COP si era già capito da un pezzo. In ultimo, come esempio lampante di greenwashing politico, va citato l’illuminante discorso della neo-premier italiana Giorgia Meloni. Quasi venti minuti di intervento dove si è ribadito l’impegno dello Stivale nel promuovere la transizione ecologica ed energetica e, nel complesso, lo sviluppo sostenibile. Perché d’altronde – come ha affermato sempre la Presidente del Consiglio chiedendo la fiducia alla Camera – «non c’è ecologista più convinto di un conservatore». Peccato che, poche settimane dopo il suo insediamento, e qualche giorno prima del suo discorso ‘green’ alla COP27, il Governo a guida Meloni abbia proposto l’espansione del perimetro di estrazione di gas per le società petrolifere. Secondo la norma, nel mar Adriatico, si potrà trivellare già a partire da 9 miglia dalla costa, in barba ad ogni misura di tutela ambientale e di lotta al cambiamento climatico. D’altra parte, che la sicurezza energetica fosse la priorità per il nuovo Governo di destra è stato tuttavia chiaro fin dall’inizio. Un segnale già evidente nella rinnovata denominazione del dicastero dedicato all’ambiente e coerente con le scelte politiche di buona parte dei paesi industrializzati e non. Perché, in fondo, c’è sempre un’emergenza più rilevante di quella ambientale. E a ricordarlo, paradossalmente, c’è proprio quella che dovrebbe essere la principale Conferenza internazionale per la risoluzione della crisi climatica.
[di Simone Valeri]
Il potere corrompe i più e chi lo acquisisce è spesso già corrotto. La miopia di chi governa riesce sempre a superare le previsioni. Forse il rinnovamento intelligente non può che partire dal basso