“Riparare” fa parte delle 7 “R” che sono alla base dell’economia circolare: Ridurre, Riutilizzare, Riciclare, che erano le tre originarie, alle quali sono state aggiunte il Riparare, Ripensare, Rifiutare, Riproporre. Eppure sembra che si faccia sempre prima a buttare e ricomprare che ad aggiustare. La malsana abitudine del sostituire il vecchio/rotto con il nuovo è un’anomalia recente nella storia umana. Per millenni i vestiti sono stati così preziosi, così difficili da produrre e così essenziali per la vita, che il rammendo era una pratica comune a tutti. Basta tornare indietro di soli settanta anni e parlare con mamme e nonne per capire quanto la riparazione fosse un’operazione all’ordine del giorno. Le cose erano fatte per durare e non era di certo un buco a segnare la fine di un capo. Anzi.
Il kit del cucito era presente in tutte le case e saper tenere ago e filo in mano era la norma; in alternativa, la sarta o il sarto del quartiere erano sempre a disposizione per stringere, scorciare o trasformare abiti con maestria e santa pazienza. Un’usanza che è andata svanita nel tempo, soppiantata dalla velocità con la quale i marchi sfornano collezioni usa&getta a basso prezzo, che creano desideri e voglia di nuovo (basta pensare al fatto che vengono dati incentivi per il nuovo anziché spronare per riparare il vecchio). Già, perché è meglio andare in giro con dei nuovissimi jeans strappati sulle ginocchia che riparare quelli vecchi, che vengono buttati via proprio per colpa dello stesso buco.
Figli del consumismo, schiavi delle tendenze, succubi dell’obsolescenza programmata studiata a tavolino da grandi imprenditori per spingerci a comprare costantemente.
Fortunatamente per ogni cosa esiste il suo opposto e per contrastare questo spreco tessile si sono formati, in maniera spontanea e per affinità di intenti (promuovere una moda lenta, attenta ed etica), gruppi di rivoluzionari che stanno riportando in auge l’antica arte del riparare, in maniera creativa e piuttosto visibile.
Un gesto frutto della consapevolezza dell’impatto ambientale della moda, un rifiuto al far parte della catena dei rifiuti tessili; ed anche un modo per dare valore a quello che è già nell’armadio. “I care, I repair” (Io ci tengo, io riparo) è una delle frasi del libro manifesto “Love Clothes Last” (“I vestiti che ami durano a lungo”, ed. Corbaccio) di Orsola de Castro, designer e co-fondatrice del movimento internazionale Fashion Revolution, nel quale invita a utilizzare il rammendo come atto rivoluzionario, liberatorio e creativo. Dopotutto “Il capo più sostenibile è quello che è già nell’armadio”; perché non allungargli la vita, divertendosi?
Il visible mending, a differenza delle riparazioni fatte dalle nonne, che dovevano essere nascoste, è qualcosa che si vede bene, che interrompe volontariamente la regolarità di un capo, che sbuca in maniera irriverente, quasi sfacciata, da una manica o sotto a un colletto. L’arte di riparare in maniera evidente, in realtà, affonda le sue radici nella cultura giapponese, che di questa storia dell’aggiustare ne ha fatto una filosofia di vita, quella del “Wabi-Sabi”: sapere cogliere e apprezzare la bellezza nell’imperfezione. Da qui riparazioni che si vedono, riparazioni che diventano arte, riparazioni che rendono l’oggetto più bello di prima. Perché le cicatrici sono segni della vita che scorre, segni del passato che determinano il presente. Come il Sashiko Stitching, letteralmente “piccole pugnalate”; una di queste arti praticabile a colpi di ago e filo, rigorosamente bianco, che crea disegni con cuciture minuscole che sembrano trattini. Come tutte le tecniche giapponesi ha bisogno di pazienza, dedizione ed un’attitudine Zen (utilizzabile anche come pratica meditativa). Con il termine Boro, invece, si indica una specie di patchwork multi-livello con cuciture a vista che somigliano a ricami, che vanno a costruire un tessuto prezioso composto di stracci. Un controsenso all’apparenza, in realtà è una tradizione che nasconde un insegnamento da rispolverare: “I Boro racchiudono i principi estetici ed etici della cultura giapponese come la Sobrietà e la Modestia (shibui), l’imperfezione, ovvero l’aspetto irregolare, incompiuto e semplice (wabi-sabi) e soprattutto l’avversità allo spreco (motttainai) e l’attenzione alle risorse, al lavoro e agli oggetti di uso quotidiano“. (Cit. dal libro “Boro: The art of Necessity”, K-J. Cottman, P. Holmberg)
Nel corso degli ultimi anni il visible mending è diventata una pratica diffusa, condivisa, utilizzata anche come momento di aggregazione durante serate dal vivo o online (nei tempi in cui uscire da casa era complicato), nelle quali poter apprendere nuove tecniche, scambiare consigli e confrontarsi. La riparazione visibile è stata anche il tema di una mostra, conclusa il 25 Settembre scorso, alla Somerset House di Londra, dal titolo “Eternally Yours: Care, Repair, Healing” (Eternamente tuo: Cura, Riparazione, Guarigione), che ha presentato diversi esempi di riutilizzo creativo, da campioni storici dell’arte giapponese di Kintsugi e Boro, fino alle opere di artisti contemporanei che mettono la riparazione al centro della loro pratica. Un modo per riflettere e celebrare la storia e il valore emotivo degli oggetti a cui teniamo, che vengono preservati e non scartati.
Niente più imbarazzo, quindi, ad andare in giro con capi “rattoppati”, perché la riparazione visibile non è un qualcosa di cui vergognarsi, bensì un segno di cura e attenzione da sfoggiare con orgoglio. È un atto d’integrità di cui andare fieri. Una rivoluzione silenziosa, gentile e creativa, che rende cool il capo e chi lo fa.
[di Marina Savarese]