domenica 22 Dicembre 2024

L’Italia spende ancora milioni di euro per sovvenzionare gli allevamenti intensivi

In Italia i soldi pubblici stanziati in nome della sicurezza alimentare vengono investiti anche a favore degli allevamenti intensivi che oltre a causare ingente inquinamento e a non assicurare il benessere animale, rappresentano luoghi ideali per il proliferare di virus. A fare luce sui finanziamenti indirizzati a grandi realtà che compromettono gli equilibri naturali è una recente inchiesta di Greenpeace Italia. La mappa degli allevamenti diffusa dall’ONG conferma altresì la pianura Padana come “Zona rossa” in quanto supera la metà del totale italiano sia per la quantità di allevamenti presenti che per le emissioni degli ultimi, ed è in prima posizione denaro pubblico ricevuto.

L’ONG ha preso in esame i maggiori emettitori italiani di ammoniaca nel 2020, risalendo in tutto a 894 siti appartenenti a 722 aziende, gli stessi che hanno incassato un totale di 32 milioni di euro nello stesso anno. Ciò significa che delle 722 aziende, nove su dieci hanno ricevuto circa 50mila euro a testa direttamente dai fondi pubblici della PAC (Politica agricola comune europea) creata per tutt’altro fine, perché su carta «Sostiene gli agricoltori e garantisce la sicurezza alimentare dell’Europa». Greenpeace ha scavato a fondo sui sostegni della PAC, trovandosi faccia a faccia con una spinosa realtà. Proprio negli ultimi anni di osannata urgenza di transizione ecologica, i sussidi indirizzati agli allevamenti intensivi sono addirittura aumentati.

Nel 2015 “solo” il 67 per cento delle aziende italiane a cui appartengono le strutture inserite nel Registro europeo delle emissioni e dei trasferimenti di sostanze inquinanti riceveva i finanziamenti della Politica agricola comune. Nel 2020 invece, i sussidi sono stati oltremodo generosi e ne hanno beneficiato l’85,5 per cento delle imprese incluse nel registro, le 722 poc’anzi nominate. La mappa diffusa dall’ONG basata sul Registro Europeo include però le strutture più grandi perché molti degli allevamenti emettitori di ammoniaca sfuggono al monitoraggio. E comunque dalla mappa risulta chiaro come a detenere un triste record tanto per il numero di allevamenti che per le emissioni dagli ultimi causate, siano realtà perlopiù situate nella pianura Padana. Solo in Lombardia esistono 462 allevamenti (sempre considerando i registrati) responsabili di 11.600 tonnellate di ammoniaca emesse eppure “premiati” con quasi 17 milioni di euro, circa il 53 per cento del totale dei sussidi PAC erogati nel 2020 mentre nello stesso anno, ad altre regioni italiane sono stati indirizzati 3 milioni di euro ciascuna.

Ciò che denuncia Greenpeace è quindi un vero e proprio nonsenso, perché la stessa Italia finanzia con soldi pubblici ciò che in Europa genera il 17,5 per cento di PM2,5, particolari polveri sottili tanto fine da entrare nel sangue attraverso i polmoni. La dannosità su più fronti degli allevamenti intensivi è stata denunciata da tempo ormai, ma focalizzandosi solo sul versante inquinamento viene alla luce come essi abbassino sensibilmente la qualità dell’aria e di conseguenza l’aspettativa di vita. Superano le emissioni di polveri sottili solo gli impianti di riscaldamento (con il 37 per cento di PM2,5).

Il contributo degli allevamenti intensivi all’inquinamento atmosferico si spiega perché nei rifiuti zootecnici si trovano ingenti quantità di ammoniaca (NH3), gas che si combina con gli ossidi di azoto e di zolfo una volta liberato nell’atmosfera, generando così le polveri sottili. Ciononostante nel 2020 è stato possibile registrare solo il 7,5 per cento delle emissioni italiane di NH3 che provengono dalla zootecnia (circa 20mila tonnellate). Il restante 92 per cento rimane senza colpevoli, proprio perché non monitorato e assente dal Registro. «Una lacuna che potrebbe essere colmata, come previsto dalla proposta della Commissione Ue di modifica della direttiva europea sulle emissioni industriali», sottolinea Greepeace.

Mentre vengono a galla sempre più incoerenze, piccole realtà ecologiche sulle quali varrebbe la pena investire sono state costrette a chiudere i battenti (basti pensare che tra il 2004 e il 2016 sono circa 320mila le aziende agricole minori fallite) e intanto gli allevamenti intensivi causa di inquinamento, avvelenamento dell’aria con polveri fini quali le PM2.5, che sfruttano impropriamente risorse preziose e costringono gli animali a vivere in condizioni indicibili – creando inoltre ambienti rischiosi a livello sanitario – vengono sostenuti con soldi pubblici teoricamente resi disponibili per tutt’altri obiettivi, tra i quali aiutare le aziende «Ad affrontare i cambiamenti climatici e la gestione sostenibile delle risorse naturali». Certo però non deve essere facile evitare di sostenere economicamente aziende molto affermate. Molte delle 722 nell’elenco sono infatti legate a giganti quali Veronesi SpA (la holding di Aia e Negroni) oppure fanno parte di gruppi finanziari come Generali o di realtà ben affermate nella zootecnia come il gruppo Cascone. I cittadini possono comunque agire appoggiando iniziative per chiedere al governo di agire contro gli allevamenti intensivi, come la raccolta firme indetta dalla stessa Greenpeace.

[di Francesca Naima]

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2 Commenti

  1. Abbiamo un problema che anche i cittadini comuni potrebbero risolvere con sane abitudini, azzerando o almeno a ridurre considerevolmente il consumo della carne.

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