I problemi ambientali ed etici legati al mondo della moda non si fermano con la produzione di abbigliamento e accessori. Quella è solo la punta dell’iceberg di un settore che impatta dalla progettazione alla vendita fino al suo (ipotetico) smaltimento, passando per i momenti di comunicazione bi-annuali tanto cari all’élite modaiola: le famigerate fashion-week.
La prima “Settimana della moda” fece la sua comparsa nel 1943 in quel di New York, anche se situazioni simili si erano viste anche a Parigi intorno al 1918. In entrambi i casi si trattava di giornate dedicate a stampa, giornalisti e compratori, il cui scopo era far visionare le anteprime delle collezioni; si svolgevano due volte l’anno, primavera e autunno, spesso in hotel e con appuntamenti prestabiliti. In quegli anni furono definite le capitali della moda: Milano, Londra, Parigi, New York. Perché, quindi, non unificare i calendari e farlo diventare un appuntamento fisso?
È dal 1993 (quasi trenta anni) che abbiamo quasi un intero mese della moda dedicato alle sfilate, che nel frattempo sono diventate spettacoli sempre più spettacolari. Momenti d’intrattenimento esclusivo dove in mostra ci vanno le celebrità e gli influencer, dove le feste e gli eventi di gala fanno scrivere più delle collezioni, e dove quello che accade in strada grazie ai look di personaggi di passaggio suscita più interesse delle modelle in passerella. Una giostra mediatica che muove milioni di euro, moltissime persone e quintali di CO2.
Si parla di 241mila tonnellate di CO2 emesse durante il Mese della Moda (analisi dei soli trasporti e spostamenti dei visitatori e marchi tra le quattro capitali Milano, Londra, Parigi, New York), più o meno quante ce ne vogliono per illuminare la Tour Eiffel per 3060 anni o tutta Times Square per 58. Questo è quanto emerge da Zero To Market, uno studio effettuato nel 2020 dalla compagnia Ordre, che nella sua analisi ha tenuto conto principalmente degli spostamenti delle persone e dei prodotti per raggiungere le varie città e i vari luoghi degli eventi all’interno di ogni capitale (perché, per chi non fosse addentro a questo mondo, le sfilate si svolgono sempre in spazi differenti, obbligando gli invitati a saltellare da un posto all’altro come schegge impazzite, quasi sempre a bordo di taxi perché camminare sui tacchi per mezza città non è comodissimo). E questo è solo l’inizio di un conteggio parziale che lascia fuori tante altre voci non proprio semplicissime da misurare.
A spostarsi non sono solo compratori, stilisti e giornalisti, ma un’ampia varietà di addetti ai lavori, tra i quali modelle, truccatrici, parrucchieri, allestitori, fotografi e tutti coloro che si muovono dietro le quinte (che spesso non sono selezionati nella città dove si svolgono gli eventi, bensì portati apposta). A ciò vanno aggiunti i consumi di energia delle location, gli allestimenti creati ad hoc (anche questi compresi di trasporto, montaggio e smontaggio), i catering (con consumo e spesso spreco d’ingenti quantità di cibo) e tutti i rifiuti generati durante ogni singolo evento. Se andiamo a sbirciare nel calendario di una fashion week qualunque a contare il numero di sfilate e di eventi collaterali, lo moltiplichiamo per le quattro città della moda e ancora per due (perché di fashion week ce ne vogliono almeno un paio l’anno), capiamo che non si tratta propriamente di eventi a impatto zero.
E la domanda sorge spontanea: di questi tempi in cui si parla di crisi climatica e piani per ridurre le emissioni, ha ancora senso portare avanti le settimane della moda così come sono state fatte fino ad ora?
A poco sono servite le due stagioni di “stop forzato” dove, per cause di forza maggiore, le sfilate sono state spostate nel mondo virtuale, raggiungendo un pubblico notevolmente più ampio (non solo di addetti ai lavori), ma rinunciando all’esclusività e a quel tocco glam condito di bollicine e sorrisi degli eventi dal vivo. Sono state spese un sacco di belle parole e tante buone intenzioni, in quegli anni, dove sperimentare soluzioni alternative sembrava davvero un modo per invertire la rotta, abbattere il consumo energetico e trovare nuovi modi di comunicare la moda senza compromettere il pianeta. Il 100% digitale, però, sembra non aver convinto del tutto i signori della moda. Infatti, riaperte le gabbie, tutto è tornato a quella normalità tanto anelata, rassicurante, dove gli equilibri sono al loro posto e dove nessuno rinuncia alla propria corona. Perché si sa, chi cambia la via vecchia per quella nuova… e per cambiare sul serio bisogna essere realmente disposti a cedere qualcosa. Nel mondo della moda, a cedere, sono solo certi tipi di tessuti. Figuriamoci a ripensare completamente le fashion week, progettandole per uno scopo diverso ogni anno e uscendo dai paletti pre-stabiliti dalle varie camere della moda, magari con un occhio all’ambiente.
Difficile sì, non impossibile. C’è già chi si sta attrezzando e il buon esempio, in termini di sostenibilità arriva, ancora una volta, dal nord dell’Europa.
Helsinki e Copenaghen: due esempi ai quali ispirarsi
Due capitali nordiche che non rientrano nei quattro poli super-fashion, ma nelle quali si respirano moda e innovazione a ogni angolo della strada. E che hanno messo la sostenibilità come pilastro fondamentale delle loro fiere e settimane dedicate alla moda.
A Helsinki sono stati definiti tre principi base, imprescindibili, sui quali valutare sia la scelta dei marchi che possono accedere agli eventi: i brand coinvolti devono soddisfare determinati criteri di sostenibilità; i prodotti sono valutati in tutte le loro fasi, dalla progettazione alla produzione; i luoghi scelti per gli eventi sono selezionati secondo strette valutazioni ambientali, ovvero il consumo di acqua ed energia, per le quali è previsto anche il ricorso a energie alternative, come quella solare o eolica. Gli allestimenti non devono essere usa e getta, ma possibilmente riciclati e riciclabili. Attenzione anche al cibo, dove si prediligono catering vegani e cibi di stagione. Piccoli passi, è vero, almeno nella direzione giusta.
L’edizione estiva della Copenaghen Fashion Week e della fiera CIFF (Copenaghen International Fashion Fair), svoltasi lo scorso agosto, si è distinta per innovazione e tutela dell’ambiente. Anche nella capitale danese, per accedere sia alla fiera sia alle sfilate, sono richiesti standard di sostenibilità in base ai quali i designer acquisiscono dei punti a seconda di come sono progettati i capi, della produzione, delle condizioni dei lavoratori e in che modo verrà presentata la sfilata (chi non raggiunge il punteggio minimo, è fuori). Fattori determinanti sono la produzione effettuata con almeno il 50% dei materiali riciclati o recupero di rimanenze (dead stock) ed è stato bandito per sempre l’uso delle pellicce; ma si valutano anche criteri come l’inclusività e l’etica nella scelta dei modelli che dovranno sfilare in passerella. In concreto, basta défilé che prevedono solo l’uso di taglie 38 alte un metro e ottanta; ci deve essere, e c’è stato, spazio per persone di ogni genere, taglia, età ed etnia. Una piccola rivoluzione, anche per quanto riguarda l’immagine, che non è solo l’ennesimo esempio di greenwashing, ma un impegno reale per una moda differente.
Sezioni appositamente dedicate della fiera sono state introdotte da almeno tre stagioni, come la rassegna CIGG Sustain, spazio che ha ospitato marchi impegnati nella sostenibilità e nell’innovazione; o come l’area interamente concepita per divulgare in maniera pratica e teorica l’economia e la moda circolare.
Così queste settimane non sono più solo uno spazio dove avvengono mere transizioni commerciali o di marketing, bensì opportunità di scambio, di conoscenza, di comunità affini che cercano e si scambiano soluzioni reali per una transizione verso un modello produttivo e comunicativo meno impattante. Un modo concreto per rispondere all’emergenza climatica e promuovere un cambiamento. Che si può fare solo rimanendo uniti, lavorando in maniera sinergica e non competitiva. Un approccio inusuale quello promosso da Cecile Thorsmark, CEO della Fashion Week Danese: valori condivisi, marchi accessibili, sfilate spesso aperte al pubblico e, in generale, un clima rilassato, informale…autentico. Decisamente distante dall’élitarismo tipico delle capitali della moda.
Molto probabilmente quella di Copenaghen non avrà l’impatto mediatico, l’importanza commerciale e il fascino di Milano o Parigi, ma ha un approccio dal quale prendere ispirazione, allineato alla sensibilità dei consumatori più attenti e alle esigenze dell’ambiente.
In ogni caso si tratta di un esempio che testimonia che sì, si possono fare le cose in maniera differente. Basta volerlo.
[di Marina Savarese]