Bene, potrà anche apparire un approccio di parte, mosso da colui il quale si occupa nella vita principalmente di temi connessi al lavoro e al suo mondo, eppure sono profondamente convinto del fatto che per parlare di democrazia – non solo sia assolutamente imprescindibile un riferimento al lavoro e ai suoi diritti – ma che sia addirittura il riferimento principale, il più importante di tutti.
C’è un testo nella nostra esperienza giuridica, un testo normativo, il quale – nonostante sia formalmente quello fondamentale per eccellenza – risulta ormai da tempo disatteso, disapplicato, potremmo dire profondamente tradito: si tratta della nostra Costituzione repubblicana. Che esista un rapporto semplicemente imprescindibile tra lavoro e democrazia è proprio la Costituzione a dircelo, in numerosissimi riferimenti, a partire ovviamente dallo stranoto e spesso ipocritamente citato articolo 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. In molti interpretano questo articolo pensando che esso voglia in sé riconoscere a tutti il diritto al lavoro, ma è una lettura errata del testo: infatti è l’articolo 4 a riconoscere universalmente tale diritto: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Il primo articolo della nostra Costituzione desidera affermare qualcosa di assai più profondo, tracciando un percorso nitido e preciso verso la piena partecipazione democratica mediante uno specifico modello di lavoro: un modello chiaramente leggibile nel secondo comma dell’articolo 3: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Di partecipazione dei “lavoratori” parla la nostra Costituzione: vale a dire che senza la partecipazione della comunità del lavoro non potrà esservi democrazia costituzionale e, pertanto, due sono gli elementi a mio avviso da porre sotto la lente d’ingrandimento in questo rapido ragionamento da condurre insieme: primo, se oggi esistano condizioni adeguate a garantire la partecipazione delle donne e degli uomini del lavoro; secondo, quali siano appunto le condizioni da realizzare affinché ciò avvenga.
Precarizzare il lavoro significa precarizzare la democrazia
Le donne e gli uomini del lavoro potranno partecipare democraticamente solo a condizione che vi siano garanzie adeguate di sicurezza sociale. Quando si parla di partecipazione democratica dei lavoratori non si fa un riferimento specifico alle sole questioni attinenti al lavoro e ai suoi diritti: certo, la partecipazione democratica e sindacale può essere declinata per contrastare ingiustizie sui luoghi di lavoro, per pretendere il rispetto delle regole (in materia di riposi, retribuzione, salute e sicurezza, ad esempio), per rivendicare migliori condizioni di lavoro, ma non c’è solo questo. Pensate allo sciopero, uno degli strumenti classici di espressione sindacale: esso può avere come controparte il datore di lavoro, certo, ma anche il governo: ci sono scioperi politici, ad esempio, che possono essere proclamati per contrastare una politica economica direttamente dannosa per il mondo del lavoro o, magari (come successo in passato), per protestare contro la scelta di entrare in guerra. Quest’ultimo scenario, ad esempio, particolarmente significativo in relazione ai tempi che viviamo, appare tuttavia oggi di difficilissima realizzazione e di improbabile concretizzazione: non a caso.
Impedire dunque la partecipazione democratica di lavoratrici e lavoratori avrà certamente un impatto sulle loro stesse condizioni di lavoro e dunque vite, ma non solo: avrà ricadute profondissime sull’intera democrazia costituzionale. In questo senso credo opportuno rimarcare come le riforme in materia di lavoro in questo Paese siano sempre state riforme di potere. Dopotutto, nonostante i fallimenti reiterati (si diceva servissero a rilanciare occupazione e investimenti), la ricetta non è mai cambiata: proprio perché il reale obiettivo era quello di disinnescare la partecipazione delle masse, dei molti, per garantire ampi spazi di manovra ai pochi, alle élite, alla finanza internazionale e alle multinazionali, a pieno compimento del modello neoliberale.
Dobbiamo studiare la storia: oggi la storia della partecipazione democratica del mondo del lavoro non la conosce quasi più nessuno, quantomeno in pochi la raccontano (molti di quelli che la conoscono la tacciono volutamente): il mondo del lavoro non è sempre stato in ginocchio come lo vediamo adesso. Basta rileggere le cronache di fine anni ’60 e inizio anni ’70 per aver un saggio di come a quei tempi andassero certe cose: qualcuno parlava di pansindacalismo, quale fenomeno (per alcuni, ad esempio per gli industriali, una deriva nefasta) nel quale il movimento dei lavoratori era tanto forte da risultare determinante in ogni ambito della vita pubblica e collettiva in generale; altri arrivarono persino a teorizzare lo stato sindacale, una sorta di nuovo ordine delle cose, nel quale a detenere il vero potere, la capacità più determinante nel definire le scelte strategiche dell’intero sistema Paese, non potessero che essere i lavoratori e i loro rappresentanti, questi ultimi assai più dignitosi di quelli che oggi pretendono di rappresentare le istanze del mondo del lavoro.
Parlando di democrazia e lavoro in molti si concentrano sul cosiddetto diritto sindacale: ovvero sull’insieme di regole che disciplinano la partecipazione democratica sul luogo di lavoro (diritto di assemblea, ad esempio, o di sciopero). È un approccio miope e non spiega praticamente nulla: le regole in materia di diritto sindacale sono cambiate assai poco negli ultimi cinquant’anni. Si, certo, ci sono le limitazioni allo sciopero nei servizi pubblici essenziali che di fatto hanno tarpato le ali alla protesta in molti settori, ma di sicuro non basta a comprendere l’indifferenza dei lavoratori alle dinamiche che li interessano o, quantomeno, a interpretare le ragioni del loro (eccezion fatta per alcuni circoscritti momenti) immobilismo.
Ad essere mutato è il modello di lavoro, il quale si è allontanato anni luce da quello immaginato dai padri della Costituzione: si è affermata la precarietà del lavoro e quella nel lavoro e delineatosi dunque il nuovo modello, un modello che ha finito per scrivere una nuova Costituzione materiale, assai diversa da quella che avrebbe dovuto essere, e pertanto lontana dalla Costituzione formale, quella del 1948, quella figlia della resistenza antifascista (antifascismo vero, non di certo quello che vediamo oggi e che viene adoperato strumentalmente da alcuni partiti e alcune testate per fare propaganda politica).
Per precarietà del lavoro si intende la precarietà del rapporto di lavoro: un tempo il contratto di lavoro era a tempo pieno e indeterminato, lo si definiva contratto tipico, come a sottolineare che fosse l’unico ad avere piena dignità di essere considerato un contratto di lavoro. Oggi quasi tutte le assunzioni si fanno con contratti atipici (che in effetti costituiscono ormai la nuova tipicità), ovverosia con contratti di lavoro precari: registriamo in questo momento storico il più alto tasso di precarietà mai rilevato nella storia repubblicana di questo Paese.
Per precarietà nel lavoro si intende nel quotidiano della prestazione lavorativa innanzitutto: nel tempo sono state sdoganate pratiche in passato considerate semplicemente impossibili come il controllo a distanza, il demansionamento, persino il licenziamento illegittimo. In questo momento, mentre leggete questo contributo, nel silenzio più totale di politica e giornali (non tutti, evidentemente) tante donne e tanti uomini piangono perché licenziati illegittimamente e impossibilitati a riavere quanto loro sottratto: con le regole attuali, infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, anche qualora un giudice riscontrasse e sentenziasse l’illegittimità di un licenziamento, il lavoratore potrebbe ambire ad una banale indennità (assai diversa peraltro dal risarcimento del danno prima previsto) e non otterrà di certo la reintegrazione sul posto di lavoro.
In definitiva, oggi, mentre leggete queste parole, in Italia è tollerato il furto di lavoro, il furto di ciò che serve ovviamente per guadagnarsi da vivere, ma non solo: serve per guadagnarsi la propria stessa libertà e la propria dignità (l’art. 36 della Costituzione infatti recita: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa»). Un contesto di questo tipo, assai intuibilmente, rende praticamente impossibile la partecipazione democratica delle persone con gravi ricadute in termini di democrazia costituzionale. Non solo, per inciso è bene precisare che questo contesto rende praticamente inattuabili molte altre regole in materia di lavoro, prime fra tutte quelle relative a salute e sicurezza sui luoghi di lavoro: a fronte di una normativa piuttosto protettiva, nel 2021 abbiamo contato più di mille morti sul lavoro e la cifra pare sarà persino superata nel 2022. La matrice del problema è sempre la stessa: per quanto le norme possano prevedere determinati presidi, se i diritti a protezione della posizione individuale dei lavoratori sono insufficienti, permanendo le precarietà (del e nel lavoro), questi ultimi (i lavoratori) non potranno pretendere l’applicazione delle regole e, conseguentemente, si creerà un’enorme zona grigia di illegalità. Un individuo ricattabile, infatti, perché assunto con un contratto precario (o, peggio ancora, con un contratto di formazione quale è lo stage) e, a prescindere da ciò, sottoposto a rischio di controllo a distanza indiscriminato, di demansionamento selvaggio, di licenziamento illegittimo e, dunque, di ritorsioni arbitrarie non si troverà mai nelle condizioni di partecipare democraticamente. Questa è la sostanza del problema, questo è il nocciolo della questione e le riflessioni politiche in materia, testimone una delle più desolanti campagne elettorali di sempre, sono lontanissime dal centrare (a mio avviso volutamente) il cuore degli ostacoli alla democrazia del lavoro e dunque dell’Italia. Per quanto quello che ho esposto, necessariamente per sommi capi, possa poi apparire la questione delle questioni, in realtà non ne costituisce che la punta, la parte più visibile ed evidente. Non sfuggirà il paradosso: se quello che appunto considero l’aspetto più scontato, per certi versi persino banale, è così lontano e taciuto nel dibattito pubblico, nonostante i gravi effetti prodotti e accennati, figurarsi cosa avvenga in relazione a tutto il resto.
Sovranità, lavoro, democrazia
Il diritto, infatti, è mera sovrastruttura dell’ordine economico: è quest’ultimo, in relazione alla distribuzione delle sue risorse, a determinare i rapporti di forza dei quali il diritto con le sue regole, appunto, costituirà la mera espressione, quasi estetica. In poche parole, la determinazione della domanda e dell’offerta di lavoro, la politica economica in materia di occupazione, determinerà il rapporto di forza nel sistema tra comunità del lavoro e grande impresa. Le grandi conquiste in materia di diritto del lavoro, la più nota è lo Statuto dei lavoratori ma se ne potrebbero citare molte altre, altro non sono che mera espressione di politiche economiche di piena occupazione.
Il ragionamento è semplicissimo, sconcertante nella sua banalità, misure economiche espansive, anti regressive, stato sociale, in poche parole tutto ciò che la nostra Costituzione prevede, tendono a rafforzare nel mercato del lavoro la parte dell’offerta (ovvero i lavoratori) a scapito della domanda di lavoro. Viceversa, politiche economiche regressive e austere, tenderanno a rafforzare la domanda di lavoro, con particolare riferimento alla grande impresa e alle multinazionali.
È in questo senso che si consuma l’ipocrisia attorno al tema della disoccupazione: essa nell’ideologia neoliberale non è affatto un male da estirpare, non costituisce un incidente di percorso frutto delle crisi economiche succedutesi tra il XX e il XXI secolo; rappresentava piuttosto il risultato ambito, l’obiettivo prepostosi sin dal primo momento per ottenere l’indebolimento della comunità del lavoro del Paese. Infatti, nell’osservare l’evoluzione dei processi di precarizzazione, si comprende subito che essi hanno tratto origine proprio dagli anni durante i quali l’Italia rinunciava alla sua sovranità in materia di politica economica e monetaria, votandosi completamente alle scelte imposte dall’Unione Europea (e dalla Comunità nel passato), quest’ultima evidentemente espressione di logiche neoliberiste avverse al mondo del lavoro.
È chiaro che chi scrive si rispecchia nitidamente in uno specifico punto di vista e nutre una morale che guarda con maggior favore il mondo del lavoro, la parte dei lavoratori: prima di tutto perché banalmente è la parte più numerosa, in secondo luogo perché nel rapporto di lavoro i lavoratori costituiscono fisiologicamente la parte debole, più debole, quella per definizione fragile: dal lavoro e dai mezzi mediante esso ottenuti deriva la vita stessa degli individui, la loro dignità e libertà, quella delle loro famiglie.
Lo stesso non può evidentemente dirsi, certamente non nella stessa misura, per l’impresa (la cui libertà peraltro non è costituzionalmente illimitata, si veda quanto prescritto all’art. 41). Al netto di ciò, ad ogni modo, la questione è incasellabile anche in una prospettiva scevra da valutazioni morali: la società si compone di conflitti e l’idea per cui il conflitto sociale possa essere risolto è semplicemente irrealizzabile, per il solo motivo che nei gruppi umani esistono componenti contrapposte o quantomeno divergenti quanto lo sono gli interessi in campo. Questo vale ovviamente, forse soprattutto – ed ecco il perché di tanta attenzione da parte della nostra Costituzione -, per il mondo del lavoro.
E ci sono due parti che lecitamente nutrono interessi contrapposti: i lavoratori e le grandi imprese. Non parlo dei liberi professionisti o della piccola e media imprenditoria dal momento che ormai credo possano essere inclusi nella prima categoria, quella appunto dei lavoratori, a prescindere dalla loro natura giuridico-formale. Ognuna delle due parti persegue i propri interessi: peccato che i lavoratori si dimostrino assai meno efficaci nel perseguire i propri obiettivi. In un certo senso la regia della comunità del lavoro è più difficile da organizzare (coordinare molti è più difficile che coordinare pochi, quali appunto sono gli esponenti delle élite finanziarie), a questo si aggiunga che le regole in materia di lavoro sono educative alla partecipazione se tutelanti e viceversa diseducative (e dunque educative all’astensione) se precarizzanti e che i rappresentanti delle organizzazioni sindacali siano oggi, quantomeno ai vertici delle grandi sigle, semplicemente scadenti (e non si aggiunge altro per non rompere l’incanto di un linguaggio sinora condotto compostamente).
L’utilizzo delle emergenze per erodere i diritti
Dall’altro lato abbiamo invece una strategia definita che galoppa in crescente accelerazione: gli avversari del mondo del lavoro sanno ad esempio approfittare benissimo delle parentesi emergenziali (reali o artefatte che siano) per imporre il proprio disegno e per coordinare ristrutturazioni capitalistiche con enormi implicazioni politiche. Sono abilissimi in questo, lasciando persino intendere che certe misure si rendano necessarie proprio per riconoscere vantaggi alle lavoratrici e ai lavoratori. Dopotutto lo schema è ricorrente: non erano certo tanto sciocchi da sorreggere dialetticamente gli interventi di precarizzazione con argomenti reali, se ne guardavano bene. Affermavano piuttosto, con la complicità di qualche sindacalista compiacente (magari per ottenere un successivo seggio parlamentare), che la “flessibilizzazione” avrebbe attratto capitali, creato occupazione e dinamiche positive per le persone nel mercato del lavoro. Tutte sciocchezze ovviamente: e lo sapevano benissimo, ma facendo leva sulle parentesi emergenziali (in quei momenti finanziarie) riuscivano ad erodere diritti ai lavoratori (e specularmente a creare privilegi, quale ad esempio la possibilità di licenziare arbitrariamente, in capo alla grande impresa).
Oggi la strategia è ancora più sottile, pensiamo a cosa si è riuscito a sostenere sullo smart working: sui giornali e dalle bocche dei politici abbiamo subito una narrazione semplicemente surreale, che dipingeva il lavoro agile quale soluzione a qualsiasi tipo di problema: dalla mobilità, a quello ambientale. Abbiamo letto che con il lavoro agile, ad esempio, i lavoratori avrebbero potuto prestare la propria opera in crociera (ignorando il fatto che gli italiani siano gli unici lavoratori europei ad aver subito una contrazione salariale dagli anni ’90 ad oggi: con cosa la pagano la crociera?), che avrebbero potuto lavorare da qualsiasi luogo e in totale libertà di determinare tempi di vita e di lavoro. E tanti sciocchi se le sono bevute certe panzane, galoppate non a caso durante la crisi sanitaria. Eppure sarebbero state disinnescabili con un ragionamento semplicissimo: è del tutto inverosimile, infatti, che coloro i quali si impegnino da decenni per massimizzare lo sfruttamento, adesso, illuminati improvvisamente, si preoccupino di meglio conciliare le esigenze di libertà delle persone. Semplicemente questo.
L’obiettivo infatti era ancora una volta politico: smaterializzare, atomizzare, rendere polverosa la comunità del lavoro rinchiudendo gli individui in una monade di presunta autosufficienza che in realtà è pura subalternità. E continua adesso la messa a terra del piano, della loro strategia: proprio in questi giorni leggevo di una nuova chiave di lettura a sostegno della massima diffusione dello smart working, quale forma di contrasto alla crisi energetica e dunque internazionale derivante dal conflitto tra Russia e Ucraina.
Il fronte del lavoro, invece, è malamente rappresentato: sindacato e sedicente centro-sinistra (che operano in maniera lapalissiana per la parte avversaria del lavoro) illudono i lavoratori con la storia del salario minimo legale, con lo scopo reale di sottrarre la determinazione dei salari alla contrattazione collettiva, relegandola all’arbitrio della politica colonizzata dal potere euro-unitario: perché mai chi ha per anni precarizzato il lavoro si dovrebbe occupare dell’attuazione dell’art. 36 della Costituzione? La contraddizione balza davvero agli occhi evidentissima e nondimeno ignorata. Non esiste altra possibilità per riaffermare la democrazia nel e del lavoro (sui luoghi di lavoro, la prima, e in generale nel Paese, la seconda), infatti, alternativa al disegno Costituzionale: ad esempio mediante politiche economiche di piena occupazione, abolizione della precarietà del e nel lavoro, indicizzazione dei salari. Ovviamente nessuna tra le forze politiche tradizionali afferma tali necessità e si pone tali obiettivi: della partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori a loro non interessa assolutamente nulla, anzi, la temono, consapevoli come sono che condurrebbe al ritorno del mondo, che pure vivemmo un tempo, nel quale i molti erano al centro e artefici del proprio destino.
[di Savino Balzano]