Dopo decenni di battaglie portate avanti dai nativi americani, la U.S. Federal Energy Regulatory Commission – l’ente statunitense che regola il mercato energetico – ha dato il via libera alla più grande opera di smantellamento di dighe a livello globale. In California, in particolare, dove la costruzione di dighe sul corso del fiume Klamath aveva col tempo bloccato la risalita dei salmoni dall’Oceano e messo in crisi la loro riproduzione. L’intervento antropico sul flusso del fiume ha determinato infatti un effetto sull’ecosistema locale e sull’economia di sussistenza, fondata sulla pesca, delle tribù di nativi americani che popolano la zona. Ora, però, le ragioni di questi ultimi sono state ascoltate e ben quattro infrastrutture verranno demolite per ripristinare il naturale corso del corpo idrico.
ll fiume Klamath è il secondo corso d’acqua più grande della California e, fino a un secolo fa, era il terzo fiume più popolato di salmoni tra tutti quelli della costa occidentale americana. Tuttavia, verso gli anni ’70, la costruzione di alcune dighe per la produzione di energia idroelettrica, ora in combinazione con gli effetti del cambiamento climatico, ha portato ad una drastica riduzione numerica nella popolazione di salmonidi. Così, oggi, il numero di salmoni nell’area è pari a circa il 5% del totale del periodo più florido. La specie è essenziale per l’equilibrio ecosistemico locale, nonché per la sopravvivenza delle comunità indigene della regione. Motivo per cui, da decenni, attivisti e nativi americani lottano affinché venisse ordinato l’abbattimento delle impattanti infrastrutture. I popoli originari della tribù Klamath, prima dell’inizio del secolo scorso, avevano il pieno controllo del bacino del fiume, un diritto all’abitare la loro terra ancestrale che è poi però gradualmente venuto meno in nome dello sviluppo energetico del Paese. Un primo passo in avanti fu fatto solo nel 2009, anno in cui venne raggiunto un accordo che prevedeva anche la demolizione delle quattro dighe sul fiume Klamath. Accordo poi tuttavia saltato a causa del mancato finanziamento dell’operazione da parte dell’allora presidenza repubblicana.
Tutto è invece cambiato in questi ultimi mesi, quando la società che gestisce le dighe in questione, la PacifiCorp, ha realizzato che abbattere quest’ultime era più conveniente che impegnarsi nel mitigarne gli effetti sull’ecosistema. Per rispondere alle richieste e alle pressioni dal basso, l’azienda avrebbe infatti dovuto spendere miliardi per tutelare i salmoni a fronte di una produzione energetica quasi sempre a capacità ridotta. Per completare la mastodontica operazione, la più grande impresa di demolizione di dighe nella storia degli Stati Uniti, la PacifiCorp contribuirà quindi con 200 milioni di dollari. La diga minore verrà probabilmente abbattuta già nei prossimi mesi, mentre la conclusione delle operazioni è prevista entro il 2024. Il naturale flusso di circa 500 chilometri di corso fluviale verrà così ripristinato, i salmoni potranno di nuovo prosperare e le tribù locali tornare nuovamente alla loro forma di sussistenza alimentare tradizionale. Una notizia che dà speranza e che riaccende i riflettori sull’impatto ecologico delle dighe. Queste infrastrutture, sebbene contribuiscano alla produzione di energia pulita e quindi alla decarbonizzazione, hanno spesso degli effetti sull’ecosistema fluviale e locale tutt’altro che trascurabili. Si tratta infatti di opere ingegneristiche dalle dimensioni elevate che alterano in modo intenso la naturale ecologia di un corpo idrico. Inoltre, la loro costruzione, specie nelle regioni tropicali, genera grandi quantità di anidride carbonica e metano. Sembra poi che le dighe, in quanto strutture incapaci di adattarsi al cambiamento climatico, potrebbero diventare col tempo sempre più precarie e pericolose. D’altro canto, secondo una ricerca condotta da un gruppo di scienziati olandesi e svedesi, la costruzione di queste infrastrutture, in particolare di due gigantesche dighe nel Mare del Nord, potrebbe invece fronteggiare gli effetti della crescita del livello del mare e proteggere 25 milioni di europei dalle conseguenti inondazioni.
[di Simone Valeri]