domenica 24 Novembre 2024

Scrivere come sognare

La scrittura e il sogno si intrecciano meravigliosamente e misteriosamente. Non si può scrivere senza immaginare, o perfino fantasticare, seppure in minima parte, mentre per il sogno si può parlare di scrittura quando ci si mette a raccontarne uno, quando il sogno diventa materia narrativa di una conversazione, di una confidenza, di una terapia o perfino entra nel soggetto e nella sceneggiatura di un film.

“Parlare dei sogni, raccontarli, è più misterioso che vederli” (G. García Márquez). “Scrivere può assumere il senso di una infedeltà o di un tradimento, dal momento che la penna rivela segreti che è pericoloso divulgare” (H. Kureishi). “Scrivere è tentar di sapere cosa si scriverebbe se si scrivesse. Lo sappiamo soltanto dopo” (M. Duras). “Si tratta di prendere i materiali della vita di ogni giorno e usarli per elevare la consapevolezza della nostra esistenza a un più alto livello estetico e morale per mezzo dell’arte” (W.Carlos Williams). Scrivere e sognare mettono in moto il principio del piacere. “Writing is a hard business”, scrivere è una faccenda complicata, diceva Hemingway, ma non c’è nulla che ti faccia sentire meglio. E ancora egli affermava che scrivere vuol dire fare esistere persone, non personaggi, perché i personaggi sono caricature, la gente invece esce dal cuore, dal corpo e dall’esperienza dello scrittore, compone una architettura, non un semplice arredamento di spazi.

Roland Barthes, ne Il piacere del testo (1973) è stato molto esplicito. Il sogno “mette in piena luce una finezza estrema di sentimenti morali e talvolta perfino metafisici, il senso più acuto dei rapporti umani, delle differenze sottili, un sapere della civiltà più elevata, insomma una logica… articolata con una delicatezza inaudita, che solo un lavoro di veglia intensa dovrebbe poter ottenere”.

E che dire di García Márquez che immagina, o forse davvero racconta di una donna che metteva in affitto i suoi sogni per la scuola di Cinema di Cuba? Sogni in affitto, diceva, come se ci fosse un oggetto di proprietà, di appartenenza che si metteva a disposizione.

Nello ‘scrivere come sognare’, titolo questo di un mio libro recente, il problema è il risveglio, quando la penna si alza dal foglio o il dito dalla tastiera, rincorrendo gli spazi bianchi, cancellando e riscrivendo. Nel sogno no, non sono ammesse correzioni ma soltanto dimenticanze, censure volontarie o meno, allucinazioni e falsi ricordi. Il sogno, questa “Musa notturna”, come la chiamava Proust, che “si svincola dal concreto” e che riesce anche a soppiantare l’altra, la Musa professionale, frutto di ispirazione dell’autore. 

Ma dov’è la compiutezza, si chiedeva Barthes? Il racconto del sogno è un’opera aperta che la veglia si incarica di completare illusoriamente. Ogni frase di un testo è compiuta, la scena di un film anche, nel sogno non basta il risveglio perché il sogno lascia tracce, come un romanzo che ci avesse incantato per un ambiente, una osservazione, un paesaggio o uno sguardo, la bambinetta con un segni di eczema sulla fronte, nell’Ulisse di Joyce, gli occhi perduti di Goljadkin sul ponte di Pietroburgo, ne Il sosia di Dostoevskij.

Il sogno, annotava Proust ne Il tempo ritrovato “costituiva uno dei fatti della mia vita… che maggiormente avevano contribuito a convincermi del carattere puramente mentale della realtà”: di conseguenza il sogno avrebbe fornito un aiuto “nella composizione della mia opera”.

Insomma, come ho affermato nel mio Scrivere come sognare, “si può scrivere soltanto a patto di ricominciare a sognare, prima che il senso svanisca come le piccole onde, a riva, di un lago”.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

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