Le grandi piattaforme online, che possiedono una sorta di oligopolio informativo in tutto il mondo, hanno deciso di lanciare quella che può essere considerata una sfida definitiva alla cosiddetta lotta contro la “disinformazione”: Google e YouTube hanno annunciato, infatti, una sovvenzione di 13,2 milioni di dollari per l’International Fact-Checking Network (IFCN) – Rete internazionale per la verifica dei fatti – che riunisce la comunità di “controllori dei fatti” (fact-checker) in tutto il mondo, promossa e gestita da Poyntner, scuola di giornalismo no-profit con sede a St. Petersburg in Florida. La rete era già stata lanciata nel 2015 e ora riceverà il determinante contributo dei giganti del web. Obiettivo di quest’ultimi è finanziare un nuovo Global Fact Check Fund per supportare la loro rete di 135 organizzazioni di fact-checking in 65 nazioni che coprono oltre ottanta lingue. Si tratta del contributo più grande di Google e YouTube per il «controllo dei fatti».
L’iniziativa si inserisce nel più ampio contesto di controllo dell’informazione già avviata anche dalla Commissione europea l’estate scorsa con la pubblicazione un nuovo codice di condotta contro la disinformazione, sottoscritto, tra gli altri, proprio dalle Big Tech. Gli sforzi circa il monitoraggio di quanto divulgato sulle principali piattaforme si sono intensificati a partire dal periodo pandemico e in concomitanza con la campagna di vaccinazione anti-Covid, per proseguire poi con la guerra in Ucraina. Emerge, dunque, la volontà dei magnati dei mezzi di comunicazione e delle istituzioni politiche di vigilare strettamente su quello che è noto come “quarto potere” – ossia l’apparato mediatico – proprio per la sua capacità intrinseca di influenzare le masse e plasmare gli eventi, creando il consenso, elemento imprescindibile dei sistemi liberali.
Google e YouTube stanno, dunque, creando prodotti e strumenti che dovrebbero aiutare le persone a «comprendere meglio ciò che vedono online»: è stata sviluppata, ad esempio, una funzione di ricerca – “Informazioni su questo risultato” – che fornisce un «contesto critico» sul risultato prima che la pagina venga visualizzata e che è stata recentemente estesa a molte lingue ed è già stata utilizzata più di 2,4 miliardi di volte secondo le informazioni riferite dalla stessa Google. Inoltre, è stata avviata l’iniziativa “Super Searchers”, volta a formare i bibliotecari e il personale delle biblioteche in 12 paesi europei sulle migliori pratiche di alfabetizzazione mediatica. Tra queste ultime, vi è l’utilizzo degli strumenti sviluppati dalle piattaforme e il Google Safety Engineering Center for Content Responsibility (GSEC) di Dublino: si tratta di «un punto di riferimento regionale per gli esperti Google impegnati a contrastare la diffusione di contenuti illegali e dannosi, nonché un luogo in cui possiamo collaborare con legislatori, ricercatori e autorità nell’ambito della regolamentazione».
Nello specifico, Google sta operando soprattutto nell’Europa centrale e orientale, attraverso finanziamenti di 2,5 milioni di dollari a TechSoup Europe con l’obiettivo di aiutare le ONG a combattere la disinformazione e di supportare Demagog – sito che controlla la veridicità delle affermazioni dei politici cechi e dei contenuti popolari sui social network – «nella costruzione del suo ecosistema di verifica dei fatti in tutta la regione». YouTube ha lanciato, invece, un’iniziativa di «alfabetizzazione mediatica», chiamata Hit Pause, per «aiutare le persone a valutare i contenuti che guardano e condividono fornendo suggerimenti sull’identificazione delle diverse tattiche di manipolazione utilizzate per diffondere disinformazione». Quest’ultima iniziativa verrà estesa in tutta Europa nei prossimi mesi. Inoltre, Jigsaw – una squadra all’interno di Google che sviluppa ricerca e tecnologia per contrastare i danni online – ha recentemente distribuito una serie di video prebunking come tattica preventiva per aiutare a contrastare le narrazioni anti-rifugiati in tutta l’Europa centrale e orientale.
La macchina di controllo mediatico è entrata, dunque, nel pieno della sua attività e mostra inequivocabilmente la volontà di incanalare e orientare l’informazione, relegando nella categoria della disinformazione tutto ciò che non risulta conforme all’ideologia dominante: nell’ambito della disinformazione, infatti, ricade tutto ciò che osa sottoporre ad analisi critica i contenuti dei media cosiddetti mainstream che fungono non di rado da cassa di risonanza delle posizioni governative e delle istituzioni sovranazionali. Tuttavia, i primi a divulgare notizie false sono spesso proprio gli autoproclamatisi “professionisti dell’informazione”, come hanno mostrato innumerevoli episodi recenti inerenti, ad esempio, al conflitto in Ucraina. Rimane, dunque, estremamente difficile stabilire chi ha la facoltà di dichiarare vera o falsa una notizia, specie se si considera che l’apparato mediatico risponde a precisi interessi e ha un ruolo decisivo nel foggiare la percezione delle opinioni pubbliche anche attraverso la manipolazione psico-emotiva. Si può per questo affermare che le pratiche di debunking e di fact-checking dei paesi liberali siano il corrispettivo – edulcorato e mascherato dietro al pretesto della “disinformazione” – della censura nei Paesi “autoritari”. D’altronde, tanto negli uni quanto negli altri, l’informazione è uno strumento a disposizione delle autorità che se ne servono nelle modalità a sé più congeniali. Rimane inalterato però l’obiettivo di fondo: mantenere il controllo delle “masse”. E il “quarto potere”, in questo, è senza dubbio l’arma più efficace.
[di Giorgia Audiello]