La vitamina D può ridurre il rischio di contrarre il Covid-19 nonché di morire a causa del virus: è quanto si desume da uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Scientific Reports, con cui è stata appunto valutata l’associazione tra l’integrazione della vitamina ed i rischi appena citati. Utilizzando come popolazione di riferimento quella dei veterani statunitensi, i ricercatori hanno infatti dimostrato che l’utilizzo della vitamina D2 e D3 era legato ad una riduzione dell’infezione così come della quantità di individui morti nei 30 giorni successivi alla contrazione del virus. Una scoperta di non poco conto visto che, come ricordato all’interno del lavoro scientifico, “diversi studi hanno dimostrato che la carenza di vitamina D è associata ad un aumento del rischio di infezione da Covid-19”, tuttavia fino ad ora non si sapeva se effettivamente il “trattamento con la vitamina D” potesse “ridurre il rischio associato di infezione da Covid-19”. Non a caso, dunque, lo studio si è concentrato primariamente sull’impatto della vitamina D nei confronti delle infezioni, pur non tralasciando, però, il menzionato tema della riduzione dei morti.
Nello specifico, utilizzando un gruppo di pazienti che avevano integrato la vitamina D2 e la vitamina D3 prima della pandemia (1 gennaio 2019 – 31 dicembre 2020) e durante la stessa (1 marzo 2020 – 31 dicembre 2020), e confrontandoli con un gruppo di individui non sottopostisi a tale trattamento, è emerso che i pazienti che avevano assunto la vitamina D2 e D3 avevano avuto una riduzione rispettivamente del 28% e del 20% del rischio di infezione da Covid-19 rispetto agli altri. Venendo invece alla mortalità entro 30 giorni dall’infezione, mentre i risultati ottenuti con la vitamina D2 (-25%) erano “statisticamente insignificanti” quelli relativi alla vitamina D3 non lo erano, con la mortalità che era “inferiore del 33%” grazie all’integrazione della stessa. Certo, si tratta di dati da non considerare definitivi essendo lo studio caratterizzato da alcuni limiti, tuttavia ci sono buone ragioni per credere che le evidenze emerse non siano infondate. Nel lavoro, infatti, viene ricordato che la mortalità da Covid-19 è stata “definita come qualsiasi decesso nei 30 giorni successivi all’infezione”, visto che “i dati dei certificati di morte non erano disponibili”: ad ogni modo, però, non si tratta di certo di risultati campati in aria, essendo “probabile che la mortalità registrata poco dopo l’infezione sia fortemente correlata all’effettiva mortalità da Covid-19”.
Tra i limiti della ricerca, poi, c’è il fatto che dettagli rilevanti in ottica infezione e mortalità, come “lo stato socioeconomico e il peso/obesità”, non sono stati considerati. Tuttavia, le ragionevoli preoccupazioni a ciò connesse non possono che venire “attenuate dalle significative associazioni tra bassi livelli sierici di vitamina D e dosaggi medi e cumulativi più elevati che hanno dato risultati migliori”, il che a quanto pare costituirebbe un punto a favore dell’efficacia della vitamina D. Infatti, “i veterani che hanno ricevuto dosaggi più elevati di vitamina D hanno ottenuto maggiori benefici dall’integrazione rispetto ai veterani che hanno ricevuto dosaggi più bassi” e la maggiore diminuzione dell’infezione in seguito all’integrazione si è verificata proprio nei “veterani con livelli ematici di vitamina D compresi tra 0 e 19 ng/ml” (nanogrammi per millilitro), ovverosia i livelli più bassi presi in considerazione. In pratica, dunque, i pazienti in cui la carenza di vitamina D è maggiore ed a cui viene poi somministrata la stessa, godono più degli altri dei suoi benefici, con un miglioramento che a quanto pare mostra in maniera tangibile gli effetti positivi dell’integrazione.
Non è un caso, dunque, se nello studio si legge che “come trattamento sicuro, ampiamente disponibile e conveniente, la vitamina D può aiutare a ridurre la gravità della pandemia di Covid-19″. Del resto, secondo le stime degli studiosi, nel 2020 negli Stati Uniti si sarebbero potuti verificare “circa 4 milioni di casi in meno di Covid-19 e si sarebbero potute evitare 116.000 morti”. Numeri, questi ultimi, che inevitabilmente fanno pensare alle politiche attuate durante il periodo emergenziale, in cui non ci si è concentrati sugli effetti preventivi della vitamina D, che al pari di altre cure è stata sminuita da media ed istituzioni italiane. Queste ultime, infatti, si sono grossomodo limitate a consigliare l’utilizzo di paracetamolo – o in alternativa Fans (farmaci antinfiammatori non steroidei) – e la cosiddetta “vigile attesa” per la gestione domiciliare del virus, la quale non può ad oggi non generare dubbi e perplessità.
[di Raffaele De Luca]