domenica 22 Dicembre 2024

Cop15: perché gli indigeni si schierano contro le aree protette

Nella città di Montreal, in Canada, ha preso il via il la quindicesima Conferenza delle Parti (COP15) della Convenzione sulla Diversità Biologica, che si protrarrà fino al 19 dicembre. Sono oltre 190 i Paesi che vi hanno preso parte per discutere delle misure da mettere in atto da qui al 2030 per salvare la biodiversità e gli ecosistemi. Tra queste vi è un’iniziativa controversa, la cosiddetta 30×30, che prevede di trasformare il 30% del pianeta in Aree Protette entro il 2030 e la cui adozione è prevista proprio nell’ambito dell’attuale Conferenza. Tale misura tuttavia non è vista in modo favorevole da tutti: alcune associazioni di rilievo, tra le quali Amnesty International e Survival International, hanno redatto una dichiarazione congiunta che elenca i motivi per i quali la creazione di tali Aree costituisce in primo luogo una minaccia per la sopravvivenza delle popolazioni indigene e di conseguenza della biodiversità della quale sono custodi.

L’80% della biodiversità attualmente esistente sul pianeta si trova infatti all’interno delle terre dei popoli indigeni: per tale motivo, sostengono nella dichiarazione congiunta Survival International (associazione che si occupa della tutela dei diritti dei popoli nativi) e le altre ONG, “il modo migliore per conservare gli ecosistemi è proteggere i diritti di coloro che vivono e dipendono da essi”. Le Aree Protette, infatti, costituiscono il “cardine del modello di conservazione dominante condotto dall’Occidente”, promosso attraverso il perpetrarsi di abusi ai danni della popolazione tra i quali omicidi, stupri e torture e sfratti diffusi, tanto in Africa quanto in Asia. Uno degli esempi più recenti lo ha illustrato la ricercatrice Fiore Longo a L’Indipendente, descrivendo il tentativo della Tanzania di sfrattare le popolazioni Maasai dalle proprie terre ancestrali anche con mezzi violenti, incendiando le case della popolazione e sparando contro le persone.

Come scrive Survival, all’interno della propria Guida per decolonizzare il linguaggio nella conservazione, vi è una profonda differenza tra le Aree Protette così come vengono concepite in Occidente e come invece lo sono nelle zone tipicamente collocate nel Sud globale, figlia degli squilibri di potere che evidentemente legano i due emisferi del globo. Mentre infatti in Europa non sarebbe possibile costituire un’area di questo tipo senza tenere in conto i bisogni delle comunità locali, in genere attraverso consultazioni, leggi e processi politici, in Africa e Asia questo genere di aree è gestito “da agenzie governative e ONG conservazioniste occidentali” e difficilmente le comunità hanno un qualche ruolo nella loro gestione. Una modalità di gestione che non si allontana troppo da quello di terra nullius (letteralmente “terra che non appartiene a nessuno”), in base al quale i colonizzatori britannici poterono appropriarsi dei nativi nel Pacifico sulla base del fatto che non vi era un controllo statale tale come concepito in Occidente a delimitarne i confini. “In Europa, i parchi nazionali devono tipicamente portare qualche beneficio agli abitanti locali, mentre in Africa e Asia hanno lo scopo di ‘proteggere’ dalla popolazione locale e indigena”. Oltre il 13% del nostro pianeta è costituito da Aree protette, per un valore totale di due miliardi di ettari (l’equivalente di due volte gli Stati Uniti).

La proposta del 30×30, istituita nell’ambito del Quadro Globale per la Biodiversità post-2020 dell’ONU (Global Biodiversity Framework, GBF), contiene al suo interno molte promesse di inserire la tutela dei diritti umani e territoriali, ma queste si limitano ad essere mere “indicazioni”, denunciano le associazioni, piuttosto che criteri rigorosi e vincolanti. Il 30×30, inoltre, non sarebbe supportato da alcun criterio scientifico, costituendosi piuttosto come obiettivo arbitrario. Allo stesso modo “le evidenze scientifiche dicono chiaramente che per fermare il collasso ecologico sarà necessario ben più di una rete globale allargata di Aree Protette”, indagando “le cause reali della perdita di biodiversità, come il sovra-consumo”.

«L’idea che il 30×30 sia uno strumento efficace nella protezione della biodiversità non ha alcuna base scientifica» dichiara Fiore Longo, «L’unico motivo per cui è ancora in discussione nelle negoziazioni è che viene spinto con forza dall’industria della conservazione, che vede in esso un’opportunità per raddoppiare la quantità di terra sotto il suo controllo. Se sarà approvato, costituirà il più grande furto di terra della storia e deruberà milioni di persone dei loro mezzi di sussistenza. Se i governi intendono davvero proteggere la biodiversità, la risposta è semplice: riconoscere i diritti territoriali dei popoli indigeni».

[di Valeria Casolaro]

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