domenica 22 Dicembre 2024

Ex senatore di Forza Italia condannato per concorso esterno in associazione mafiosa

Alla fine, anche per l’ex senatore di Forza Italia Antonio D’Alì si sono aperte le porte del carcere. A decretarlo è stata una sentenza definitiva partorita dalla Corte di Cassazione, che ha condannato a sei anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa l’ex parlamentare trapanese, che nel suo curriculum politico può vantare anche un Sottosegretariato al Ministero dell’Interno (dal 2001 al 2006) e la Presidenza della provincia di Trapani, sua città natale (dal 2006 al 2008).

“D’Alì – si legge nelle motivazioni della sentenza, confermata dalla Suprema Corte, con cui l’anno scorso era stato condannato in Appello – ha certamente assunto degli impegni seri e concreti a favore dell’associazione mafiosa”: ciò può essere desunto “dalla sua già stabile, affidabile, comprovata e ventennale disponibilità a spendersi in favore di Cosa nostra”. Oggetto di questa ricostruzione, un uomo che nel 1994 contribuì a fondare Forza Italia, creatura politica di Silvio Berlusconi, e che ha passato ben 24 anni di vita professionale a Palazzo Madama. Ma andiamo con ordine.

D’Alì mosse i primi passi come rampollo di una ricchissima famiglia di imprenditori trapanesi. Nel 1983 ereditò da suo zio la carica di amministratore delegato della Banca di Trapani, il più antico istituto di credito della Sicilia. Ed è proprio in quel periodo che, secondo i giudici, D’Alì cominciò a legarsi ad importanti personalità del mondo di Cosa Nostra, tra cui Matteo Messina Denaro, attualmente il più pericoloso latitante italiano, e il padre Francesco, che lavorava come campiere in un terreno di proprietà della sua famiglia. Nella sentenza di un precedente processo, in cui l’ex senatore fu assolto per i fatti successivi al 1994 e prescritto per quelli precedenti, sia in primo che in secondo grado, si evidenziava il ruolo giocato da D’Alì nella vendita fittizia di quel fondo, che Matteo Messina Denaro voleva donare a Totò Riina. Per evitare un possibile sequestro ai danni del padrino corleonese, Messina Denaro chiese infatti all’allora incensurato Francesco Geraci di acquistare formalmente il terreno da D’Alì: “È provato che Matteo Messina Denaro predispose e tradusse in atto un’operazione volta a far conseguire la titolarità del fondo sito in contrada Zangara a Francesco Geraci, nonostante reale proprietario ne fosse il Riina. Necessità di creare una provvista che potesse giustificare l’acquisto da parte dello stesso Francesco Geraci”. D’Alì, successivamente, restituì ai mafiosi i soldi ottenuti dall’acquisto fasullo. In tale cornice, per la Corte, l’ex  parlamentare agì in maniera “cosciente e volontaria, comprendendo che il proprio fatto era volto alla realizzazione dell’operazione architettata dai massimi esponenti di Cosa nostra e volendovi prestare il proprio contributo”. 

Nonostante lo spaccato emerso dalle carte, grazie alla prescrizione D’Alì evitò il peggio a livello giudiziario. Almeno fino al gennaio 2018, quando la Cassazione annullò l’assoluzione e ordinò un nuovo processo d’Appello. Esso è arrivato a compimento l’anno scorso, quando l’ex senatore è stato appunto condannato alla pena di sei anni per concorso esterno in associazione mafiosa. “D’Alì ha manifestato la propria disponibilità verso (o vicinanza a) Cosa Nostra dai primi anni ’80 del secolo scorso fino agli inizi dell’anno 2006 – ha messo nero su bianco la Corte – e comunque non vi è prova di una condotta di desistenza dell’imputato incompatibile con la persistente disponibilità ad esercitare le proprie funzioni ed a spendere le proprie energie in favore del sodalizio mafioso”. Secondo i giudici, “D’Alì ha concluso nel 2001 (dopo una invero già ventennale disponibilità verso il sodalizio mafioso) un patto (l’ennesimo) politico-mafioso con Cosa nostra, in forza del quale il sodalizio gli ha garantito l’appoggio elettorale che ha consentito all’imputato di essere nuovamente eletto al Senato”. Proprio quell’elezione costituì per il politico “il viatico per l’acquisizione dell’incarico di Sottosegretario al ministero dell’Interno” nell’allora governo Berlusconi. Ora, su questo processo è arrivato anche il timbro finale della Cassazione. E D’Alì si è dovuto costituire al carcere di Opera. Un altro tassello di un puzzle i cui contorni sono ormai ampiamente composti, provando – come ribadito dalle carte processuali sulla trattativa Stato-mafia – un legame tra Forza Italia e Cosa Nostra.

[Stefano Baudino]

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1 commento

  1. Premettendo che non so nulla della vicenda di D’Alì ma che non faccio fatica a credere che abbia effettivamente avuto rapporti anche stretti con la mafia, ma ci rendiamo conto che il reato di concorso esterno in associazione mafiosa NON è previsto dal codice penale o da alcuna altra legge dello Stato?
    In buona sostanza è un reato creato dalla magistratura in via esclusivamente giurisprudenziale, senza passare dal Parlamento, che, per quanto possa fare schifo in moltissimi suoi componenti, è l’unico organo, non in Italia, ma in qualunque paese democratico, autorizzato a legiferare (e ovvimante un reato può essere creato solo per legge, altrimenti torniamo a Re Sole e buonanotte); si tratta di una gravissima violazione dello stato di diritto, un pò come le restrizioni anti Covid varate tramite DPCM, e le violazioni dello stato di diritto, una volta che ne passa in cavalleria una, poi ne passeranno molte altre ben più gravi.

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