Lo yoga, l’insieme di pratiche ascetiche e meditative di origine indiana, è da tempo in voga anche in Occidente. La sua diffusione negli Stati Uniti e poi in Europa risale alla prima metà del XX secolo, quando personaggi di spicco del mondo dello spettacolo come la ballerina americana Ruth St Denis e l’attrice Marilyn Monroe lo promossero come allenamento di bellezza. Da quel momento la popolarità di questa pratica è aumentata considerevolmente e a valicato i confini di pratica femminile cui – senza motivo – era stato relegato in Occidente. Sono nati centri non solo per la pratica, ma anche per la cultura yogica, ma in verità quella pratica che chiamiamo yoga continua ad essere una cosa molto diversa dalle pratiche ascetico-meditative inventate nell’India antica e ancora oggi praticate nel subcontinente, con tratti che – come vedremo – rientrano nel campo dell’appropriazione e della banalizzazione culturale.
Di questo avviso è ad esempio Vikram Jeet Singh, celebre istruttore di yoga a Goa e una delle voci critiche verso l’approccio occidentale alla disciplina, come ribadito in un contenuto pubblicate in un articolo pubblicato su This Week in Asia che ha avuto un importante risonanza. «La mia cultura è stata spazzata via e soppressa dalla colonizzazione – ha scritto Singh – e ora viene riconfezionata e venduta sotto un’altra forma». Per l’insegnante indiano, il giro di soldi in Occidente attorno al “mondo yoga” va contro la sua stessa natura; non dovrebbe essere né «un’esperienza di shopping né un prodotto accessibile solo a un’élite», afferma. «Lo yoga è una pratica che esiste da migliaia di anni ed è sempre stata accessibile a tutti, ma oggi è diventato sinonimo di una sessione di allenamento priva di qualsiasi tipo di background culturale, in cui bisogna presentarsi con leggings Lululemon da 100 dollari e un tappetino altrettanto costoso».
Nel 2019, l’industria globale dello yoga aveva un valore stimato di 37,46 miliardi di dollari e si prevede che entro il 2027 raggiungerà i 66,23 miliardi di dollari. Gli enormi ricavi non provengono solo dalle iscrizioni agli studi, lezioni e ritiri, ma anche dagli accessori e i prodotti correlati – vestiti, tappetini, oggetti di scena per lo yoga, cibo e bevande – che dovrebbero completare lo “stile di vita yogico”. Per quanto riguarda il nostro Paese, secondo i dati di una ricerca dell’Osservatorio Reale Mutua, nel 2020 un italiano su cinque ha praticato yoga: il boom sarebbe avvenuto con la pandemia, quando tra lockdown e restrizioni varie, moltissimi italiani si sono avvicinati a questa disciplina. «Per dirla senza mezzi termini, l’Occidente ha creato questo sistema in cui si appropria e insegna pratiche dall’Oriente – ha continuato Singh – ma non c’è una sola persona dell’Oriente che partecipi a questo tipo di corsi e che benefici delle loro entrate».
E poi c’è l’aspetto dell’appropriazione culturale: le magliette con scritto Namaste, le immagini di divinità indù trasformate in tatuaggi o i simboli om stampati sui tappetini da yoga. Per alcuni come Nadia Gilani, maestra di Yoga intervistata dal The Guardian, tutto questo vuol dire appropriarsi di una cultura senza rispettarla. Un articolo pubblicato sul Time ha parlato addirittura di un vero e proprio “sbiancamento” dello yoga da parte dell’Occidente. Molti istruttori indiani hanno accusato i sostenitori in Occidente di averlo trasformato in un esercizio “sexy”, spesso promosso da donne bianche e magre, e di aver raccontato la pratica come uno stile di vita più che una disciplina spirituale con origini risalenti a migliaia di anni fa. Cat Meffan, insegnante online del Regno Unito, ha notato che quando mediaticamente è emerso il problema dell’appropriazione culturale, alcune aziende hanno deciso di inserire istruttori dell’Asia meridionale in prima linea nelle campagne di comunicazione, per poi smettere di farlo una volta che l’attenzione sulla questione era calata. Meffan ha aggiunto che è responsabilità soprattutto di chi promuove questa disciplina di rispettare e trasmettere la sua storia. «Se noi, come facilitatori di yoga e brand di yoga, non stiamo sostenendo i principi fondamentali dello yoga, allora dobbiamo chiederci cosa stiamo facendo», ha dichiarato.
A non aiutare in questo percorso di riappropriazione culturale è la stessa immagine stereotipata dell’India che si è diffusa in Occidente. Spesso raffigurata come “un parco giochi esotico”, l’India è entrata nella cultura pop occidentale con i viaggi dei Beatles o più recentemente di Steve Jobs o grazie a rappresentazioni di successo come il film “Mangia, prega, ama”. E questa immagine del Paese-luna park sarebbe rafforzata dallo stesso governo indiano, felice di capitalizzare la sua storia e di dipingere la sua terra come una fusione di evasione, avventura e rinascita. Basti pensare che nel 2016 l’India ha istituito un programma di visti rivolto esclusivamente a viaggiatori facoltosi che desiderano visitare il Paese per studiare yoga. Negli Stati Uniti, questi visti per lo yoga costano il doppio di un normale visto turistico.
Anche se il dibattito è ancora aperto molti istruttori chiedono maggiore impegno da parte di chi diffonde e pratica questa disciplina: «vedete una rappresentazione diversificata del tipo di corpo, delle etnie, dei generi, della classe socio-economica e delle abilità fisiche nel vostro studio? La vostra pratica riduce la vostra sofferenza e quella di chi vi circonda? Imparate, rispettate e riconoscete le radici culturali e religiose dello yoga?» queste sono solo alcune delle domande che, secondo un movimento di istruttori di yoga e scrittori, bisognerebbe porsi prima di salire su un tappetino.
[di Sara Tonini]
Aparte il fatto che i primi maestri di yoga in occidente erano proprio indiani ‘globalizati’ e trasferiti in occidente – specie il guru dei Beatles Maharishi Mahesh Yogi, che fondo un impero commerciale – e da chiedersi se l’adozione della cultura dei guru indiani e quello che si vuole. Basti pensare che è una dottrina comune di molte scuole che l’illuminazione o liberazione – qualunque cosa mai fosse – può essere solo raggiunta tramite assoluta subordinazione al guru. La unica qualifica di un guru poi essendo il nummero dei discepoli. Per trarre delle inspirazioni per la mia salute fisica e mentale da una cultura non mia dunque dovrei baciare i piedi di qualche santone per non sentirmi un disrispettoso appropiatore di cultura aliena?
Ho iniziato il prana vinyasa yoga, dopo aver letto alcuni testi sull’ origine e l’ evoluzione di questa pratica che riunisce corpo e mente, con due diverse insegnanti, nel 2019. Ho approfondito la meditazione, il controllo del respiro e gli esercizi dinamici. Con l’interruzione dovuta ai lock down ho continuato a praticarlo da solo, ho acquistato altri testi e dopo un po’ di ricerche ho trovato in rete un’ insegnante che seguo due, tre volte la settimana per 30 minuti circa. Non è lo yoga indiano dei primordi dove inizialmente si facevano solo esercizi respiratori per “sottomettere” (da jugum=yoga) il corpo e successivamente i diversi asana più o meno statici; è volutamente una forma dinamica che si è evoluta in occidente ma che mantiene largamente gli insegnamenti del respiro e della meditazione delle origini. Per me un incontro tra Oriente ed Occidente, una pratica gratificante che rafforza il corpo e lo spirito.
Tanti Maestri già a fine Ottocento e inizio Novecento insegnano e trasferiscono fuori dall’ India la pratica dello yoga. Certamente oggi molti in Occidente banalizzano e non conoscono la storia, e la filosofia che c’è dietro tale disciplina. Ma la diffusione oltre l’India è un bene ed è naturale anche che si trasformi. Nessuno dei grandi Maestri la riteneva una pratica che dovesse rimanere per forza solo in India…
Posso capire il discorso sulla banalizzazione dello yoga fatta in Occidente, non sarebbe certo l’unico caso, però, per favore, smettetela di utilizzare l’espressione “appropriazione culturale”; la cultura è di tutti e chiunque può far propria la cultura di qualunque altra civiltà, anche reinterpretandola a proprio modo e piacimento, d’altronde è così che si sviluppano le culture nel tempo, da sempre.
D’altro canto l’alternativa sarebbe il segregazionismo culturale, che non mi sembra l’ideale.