Secondo quanto denunciato da Legambiente, in occasione della sesta tappa della campagna d’informazione e sensibilizzazione sui rischi legati alle dispersioni e agli sprechi di gas fossile, la Regione Veneto dal 2019 è nel mirino dell’industria dei combustibili fossili. Negli ultimi tre anni sono infatti stati presentati almeno 8 grandi progetti legati soprattutto al gas metano, mentre numerosi sono gli investimenti attratti nel settore, i quali potrebbero condannare la Regione alla dipendenza da questa risorsa almeno fino al 2050-2060. A ciò vanno aggiunte le nuove trivellazioni ed estrazioni previste nell’Adriatico settentrionale, le quali, se avviate, metterebbero a rischio un ecosistema costiero e un territorio già fragili. In occasione della discussione della bozza di Regolamento per limitare le emissioni di metano nel settore energetico, prevista per la giornata di oggi, Legambiente e altre 10 società europee hanno lanciato un appello al Consiglio europeo affinché non si ceda alle pressioni delle compagnie petrolifere e del gas e si rendano concreti e più ambiziosi gli obiettivi di riduzione di emissioni di metano nel settore energetico.
La campagna, sviluppata dal CATF (Clean Air Task Force) e denominata C’è puzza di gas. Per il futuro del pianeta non tapparti il naso, denuncia infatti come la Regione Veneto sia “tra le regioni più energivore d’Italia”, ospiti “il più grande rigassificatore del Paese” e nell’ultimo anno abbia “registrato un importante incremento nella produzione di gas fossile”. La Regione registra infatti un consumo di gas che si aggira tra il 7 e l’8% del consumo nazionale, secondo i dati MISE, la maggior parte del quale viene utilizzato in ambito industriale. Nel 2020, petrolio e gas hanno costituito il 60% dei consumi totali di energia. Confrontando poi i livelli di produzione di gas fossile su terra del 2021 con quelli dei soli primi 9 mesi del 2022, si può già constatare come vi sia un aumento del 53,1%. Per quanto riguarda l’elettricità, il Veneto registra da solo il 10,4% dei consumi nazionali, ed il 42,8% di questa proviene dal termoelettrico a fonti fossili. Il fatto che non esistano normative che impongano alle aziende monitoraggi e riparazioni tempestive aumenta inoltre il rischio di perdite, stimato tra l’1 e il 3% sull’intera filiera del gas.
«La crisi climatica e la congiuntura economica che stiamo vivendo ci obbligano, da un lato, a ripensare subito il nostro sistema energetico, ossia il modo in cui produciamo e consumiamo energia, svincolandoci dalle logiche speculative di multinazionali e lobby delle fonti fossili, ben presenti in Veneto come attestano i numeri presentati nel dossier; dall’altro, a intervenire sulle infrastrutture con monitoraggi e interventi risolutivi anche sulle più piccole dispersioni per non aggravare la situazione climatica e recuperare una risorsa i cui sprechi, secondo alcune stime, valgono quanto le attuali estrazioni nazionali» denuncia Katiuscia Eroe, responsabile Energia di Legambiente.
«La paventata possibilità di nuove estrazioni di fronte al Delta del Po è un ulteriore aspetto di preoccupazione, al netto della sostanziale inutilità ai fini dell’indipendenza energetica, e considerata la quantità irrisoria di gas estraibile senza peraltro alcuna differenza dal lato dei prezzi, in un territorio afflitto dal fenomeno della subsidenza che ben conosce i rischi ambientali e le ricadute negative su pesca e turismo delle trivellazioni passate» asserisce Luigi Lazzaro, presidente di Legambiente Veneto, concludendo come «l’unica strada possibile da seguire» sia quella del ricorso alle fonti rinnovabili.
[di Valeria Casolaro]