La COP15 sulla diversità biologica di Montréal è culminata con l’approvazione di un accordo per certi versi storico: il Global Biodiversity Framework. Un’intesa secondo cui, entro il 2030, 192 Paesi si impegnano al ripristino globale del 30% degli ecosistemi degradati e alla conservazione della stessa percentuale di aree terrestri e marine. Per Bruxelles si tratta di un’accelerazione nella tutela della biodiversità senza precedenti, specie alla luce della mobilitazione di finanziamenti pari a 200 miliardi di dollari all’anno entro la fine del decennio e all’impegno a individuare entro il 2025, ed eliminare entro il 2030, almeno 500 miliardi di dollari all’anno di sussidi dannosi per specie ed ecosistemi. L’accordo prevede anche un impegno internazionale finalizzato ad arrestare l’estinzione delle specie conosciute e ridurre di dieci volte il rischio per tutte le specie entro il 2050. Inoltre, entro la fine del decennio, si dovrà limitare di almeno la metà la quantità di nutrienti dispersi nell’ambiente, così come si dovranno dimezzare i rischi legati ai pesticidi e gli impatti negativi dell’inquinamento da tutte le fonti.
L’approvazione del testo è avvenuta con un “colpo di mano” della presidenza cinese, la quale ha gestito i negoziati nonostante questi si stessero svolgendo in Canada. Il ministro dell’ambiente di Pechino, Huang Runqiu, ha infatti battuto il colpo di martelletto finale letteralmente ignorando l’ultimo oppositore all’accordo: il delegato del Congo, particolarmente contrario all’obiettivo 30 x 30, quello finalizzato a proteggere il 30% del Pianeta entro il 2030. Nonostante il timore principale fosse che l’espansione delle aree protette avrebbe minacciato i diritti dei popoli indigeni in alcune regioni, il testo approvato assicura però, quantomeno a parole, delle misure efficaci, nonché sottolinea che il tutto deve avvenire nel rispetto delle comunità locali interessate. Nel complesso, il patto globale sulla diversità biologica riconosce il ruolo essenziale dei popoli indigeni nella protezione della natura. Sebbene questi rappresentino appena il 5% della popolazione mondiale, tutelano efficacemente l’80% della biodiversità, pertanto, i loro stili di vita devono essere incentivati e diffusi, e i loro diritti umani protetti.
Si tratta in ogni caso di rassicurazioni non accolte da Survival International, la principale organizzazione in difesa dei popoli indigeni, che in un comunicato ha affermato che l’accordo «non è riuscito a compiere il passo coraggioso necessario per proteggere davvero la natura, ovvero riconoscere che i popoli indigeni sono i migliori conservazionisti e che il modo migliore per proteggere la biodiversità è proteggere i loro diritti territoriali». In un potente intervento dell’ultimo minuto, l’International Indigenous Forum on Biodiversity (IIFB) ha chiesto che i territori indigeni rientrassero nel calcolo del raggiungimento del target del 30% ma la sua richiesta è stata respinta, principalmente dai paesi europei, nonostante numerose prove dimostrino che i popoli indigeni proteggono le loro terre meglio di chiunque altro e che i loro territori dovrebbero essere uno strumento cruciale nella protezione della biodiversità. Questo, secondo Survival, «dimostra ancora una volta che, nella conservazione, la mentalità coloniale secondo cui gli ambientalisti occidentali sanno ciò che è meglio, è sempre viva e vegeta».
Tornando ai punti dell’accordo, il Global Biodiversity Framework va così a sostituire il testo di Aichi e i suoi 20 obiettivi di sostenibilità al 2020. Non è infatti la prima volta che i Paesi del globo si impegnano in mirabolanti promesse su temi ambientali. Anzi, ciò avviene periodicamente nel caso delle varie COP specifiche sul tema. La COP15 di Montréal è, ad esempio, solo l’ultimo capitolo di una saga iniziata nel 1992 con la Convenzione di Rio sulla Diversità Biologica. Da allora, allo scopo di proteggere specie ed ecosistemi, se ne sono dette tante. Ma, di fatto, più di 30 anni dopo, di passi in avanti concreti ancora non vi è traccia. Basti pensare ai target di Aichi, fissati in Giappone nell’ambito della decima Conferenza delle Parti della Convenzione, tutti miseramente falliti. Secondo diversi analisti, ciò che non ha favorito il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità è stata una loro definizione estremamente vaga cui bisogna poi necessariamente aggiungere un dato di fatto: l’ambiente è sempre la prima carta sacrificata in nome di altre priorità del momento. Lo abbiamo visto chiaramente con la guerra in Ucraina, dove la collaterale crisi energetica ha fatto dimenticare persino ai Paesi più virtuosi diversi buoni propositi in fatto di transizione e lotta ai cambiamenti climatici. Nonostante l’innegabile e promettente portata, l’accordo di Montreal presenta ancora le stesse falle. La vaghezza delle misure da adottare per certi versi permane, così come delude l’assenza di un sistema di monitoraggio degli avanzamenti effettuati e la mancanza di una regola che avrebbe imposto alle aziende di rendere pubblici i loro progressi in materia di tutela della biodiversità. Fattori che non permettono di escludere che gli impegni presi possano rimanere ancora una volta sulla carta.
[di Simone Valeri]