Ciclicamente, l’Unione Europea mostra il fianco ai suoi detrattori lasciando la gestione del fenomeno migratorio al di fuori del diritto e in balia degli indirizzi politici interni nonché delle opache intese politiche tra gli Stati, membri e non. Le leggi ci sono ma spesso restano carta morta, sia per la loro discrezionalità sia per la natura volontaria dei meccanismi di cooperazione. Il tutto è avvallato da un meccanismo sanzionatorio poco efficiente a livello comunitario a cui si aggiungono i farraginosi tempi degli apparati burocratici, che devono ad esempio risolvere le richieste di soggiorno o di protezione internazionale, una delle condizioni che può estinguere lo status di migrante irregolare. Questi ultimi, sullo scacchiere geopolitico dell’Unione Europea, finiscono per essere pedoni a cui è possibile sottrarre il benessere in virtù di interessi “superiori”. Tra questi figura di certo l’economia, il cui settore sommerso si alimenta di manodopera a basso prezzo e sostanzialmente priva di protezione. Si pensi al caporalato o alla criminalità organizzata, fenomeni che facilmente penetrano e influenzano la vita di chi è privo di prospettive.
Nel 2021, sono sbarcati sulle coste italiane circa 67 mila migranti. Più di un terzo (25 mila) sono stati interessati da un provvedimento di espulsione, tuttavia si sono registrati soltanto 3.420 rimpatri forzati e 346 rimpatri volontari assistiti. È lecito interrogarsi sul destino che ha atteso gli oltre 21 mila migranti irregolari rimasti sul territorio italiano e presumibilmente europeo. Stando alle ultime stime, sono in tutto 650mila gli “invisibili” del nostro Paese: c’è chi vaga negli “insediamenti informali” da sud a nord della penisola nella speranza di superare le frontiere settentrionali e congiungersi con le proprie famiglie, chi si è reinventato colf o badante, chi è finito preda del caporalato e della criminalità organizzata. Anche i rifugiati, titolari della protezione internazionale offerta dall’ONU, spesso finiscono in questa rete. Numerosi blitz delle autorità hanno rivelato storie di maltrattamento e sfruttamento, soprattutto legate al settore dell’agroalimentare.
I migranti, al pari degli oggetti, vengono poi usati come pedine di scambio o strumenti di ricatto all’interno delle logiche geopolitiche degli Stati. Nel 2021, l’Unione Europea ha deciso di sanzionare la Bielorussia di Aleksandr Lukashenko in risposta alla repressione dell’opposizione nel Paese e al dirottamento di un volo di linea per arrestare il dissidente Roman Protasevich. In tutta risposta, il presidente Lukashenko ha minacciato Bruxelles con la “bomba-migranti” e, in una riunione del governo, ha affermato: «Non fermeremo più nessuno». Il riferimento era ai profughi provenienti da Afghanistan, Siria e Iraq, persone in fuga dalla guerra usate come strumenti politici. Così, nel novembre dello stesso anno è scoppiata la crisi tra Polonia e Bielorussia, con Varsavia che ha schierato 12 mila soldati lungo il confine settentrionale con Minsk. La crisi ha rappresentato un impulso per la conclusione del muro, alto 5,5 m e lungo 186 km, che nelle intenzioni di Varsavia servirà a bloccare il flusso di migranti lungo la frontiera con Minsk. Si tratta per lo più di profughi che vorrebbero avanzare richiesta di asilo in Europa e dunque in Polonia, in virtù del Regolamento di Dublino. Negli ultimi mesi, diverse organizzazioni non governative hanno denunciato un doppio standard per il trattamento diverso riservato ai rifugiati ucraini e a chi proviene da Medio Oriente e Africa. Il viaggio di questi ultimi verso l’Unione Europa, precisamente lungo il confine tra Polonia e Bielorussia, non è stato documentato né da giornalisti né da operatori dei diritti umani a causa dello stato di emergenza invocato da Varsavia durante la crisi con Minsk. L’idea del governo sovranista di Morawiecki è stata chiara sin dal principio: blocco totale dell’accoglienza così da non dover smaltire le richieste di asilo e attendere la collaborazione degli altri Paesi membri nella redistribuzione dei profughi. Durante il periodo di tensione tra Polonia e Bielorussia e la costruzione del muro lungo la frontiera, l’Unione Europea non ha potuto schierare personale sul campo, né di Frontex né dell’Europol, perché Varsavia non lo ha chiesto, preferendo operare indisturbata e spesso al di là del limite del diritto. Il Paese è finito nel mirino di Bruxelles per il respingimento dei migranti che sono riusciti a mettere piede sul suo territorio e che per questo motivo avrebbero avuto diritto ad avanzare richiesta di asilo. Il gioco politico contrario ai valori umanitari, nonché dell’Unione, è costato la vita a decine di migranti, morti lo scorso inverno nelle gelide foreste orientali. Una volta confermato lo status di migrante irregolare impossibilitato ad avanzare richiesta di asilo, lo Stato territoriale può decidere per l’espulsione e l’avvio delle operazioni di rimpatrio. Tuttavia, prima del trasporto coatto, le autorità nazionali dei Paesi europei devono assicurarsi di ottenere il consenso e la cooperazione dello Stato di destinazione dei migranti in questione. Spesso, tale intesa è il frutto di accordi informali, non completamenti pubblici e pertanto opachi. Negli ultimi quattro anni, la Tunisia è sempre stata il Paese verso il quale è stato rimpatriato forzatamente il maggior numero di migranti arrivati in Italia: nel 2021, su 3.420 persone rimpatriate, 1.945 (il 57 per cento del totale) erano di nazionalità tunisina. Come sottolineato dall’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI), gli accordi attivi tra Italia e Tunisia in tema di immigrazione non sono mai stati completamente resi pubblici e non è chiaro in che cosa consistano.
Parigi-Roma, l’ultimo caso di ritorsione politica
A novembre, la Francia ha accolto “a titolo eccezionale” la nave Ocean Viking della ong Sos Mediterranée con a bordo 234 migranti respinta dall’Italia. Nel farlo, Parigi ha ribadito il disappunto nei confronti del governo Meloni annunciando diverse azioni di ritorsione: «Con effetto immediato, la Francia sospende tutti i trasferimenti che riguardano 3.500 rifugiati presenti attualmente in Italia e chiede a tutti gli altri partecipanti al meccanismo europeo, in particolare alla Germania, di fare lo stesso», ha dichiarato il ministro degli Interni francese, Gérald Darmanin. Il riferimento era al “meccanismo volontario di solidarietà” stipulato lo scorso giugno in Lussemburgo per aiutare gli Stati UE che, vista la posizione geografica, devono gestire il maggior numero di sbarchi. 19 Paesi membri e 4 associati hanno deciso di impegnarsi – in proporzione alla propria popolazione e al proprio prodotto interno lordo – per la distribuzione e ricollocamento dei profughi, celebrando un accordo privo di quote fisse ma lasciato all’arbitraria volontà dei Paesi, con buona pace dei MED 5: Italia, Spagna, Cipro, Malta e Grecia, che chiedevano misure più vincolanti. Nelle sue intenzioni, l’accordo prevede il ricollocamento annuo di circa 10 mila migranti richiedenti asilo, individuati principalmente tra quelli salvati in mare nel Mediterraneo oppure lungo la rotta atlantica. Tuttavia, a novembre risultavano essere soltanto 117 i migranti ricollocati dall’Italia verso altri Paesi europei, nell’ambito del meccanismo adottato a giugno. Dall’analisi dell’atteggiamento italiano, così come quello francese, si denota una certa diffidenza nei confronti delle leggi internazionali (nonostante siano stipulate di comune accordo e abbiano la precedenza su quelle nazionali a parità di rango), con volontà annessa di trovare il primo sotterfugio utile per divincolarsi. A ciò si aggiunge la poca empatia nei confronti di chi rischia la vita per superare una frontiera. In questo scenario di “pugni di ferro”, compromessi o ricatti sono coinvolti tutti i Paesi dell’Unione Europea, colpevoli di non aver trovato in trent’anni di cooperazione una misura di armonizzazione definitiva e capace di rispondere ai diritti inseriti nei Trattati istitutivi e non ai propri tornaconti personali.
25 novembre: ennesima occasione sprecata per l’Europa
Il 25 novembre scorso, il Consiglio Affari Interni ha dato il via libera al Piano d’azione per il Mediterraneo centrale presentato dalla Commissione qualche giorno prima. Si tratta di tre linee direttive per affrontare il fenomeno migratorio: agire nella fase di ricerca e soccorso in modo più coordinato, perfezionare l’implementazione del meccanismo di solidarietà concordato a giugno e lavorare su una maggiore collaborazione con i Paesi del Nord Africa per prevenire le partenze. Quest’ultimo punto scopre essenzialmente le vere carte di Bruxelles: bloccare il fenomeno migratorio per non gestire sbarchi e successiva collocazione dei migranti, evitando così altre crisi in stile Parigi-Roma. Catherine Woollard, direttrice dell’European Council on Refugees and Exiles (ECRE), ha dichiarato: «L’Egitto e la Tunisia non vogliono assumersi maggiori responsabilità, la Libia può essere comprata perché è gestita da milizie in cerca di rendita ma non può essere considerata parte di alcuna soluzione, viste le orribili violazioni in corso. Pertanto, la priorità dell’Unione Europea dovrebbe essere il raggiungimento di accordi tra i Paesi membri». «Il paradosso» – continua Woollard – è che «la Commissione minimizza le sue responsabilità nel garantire un accordo a livello europeo adducendo come giustificazione il fatto che le attività di ricerca e soccorso non fanno parte dell’ordinamento giuridico comunitario ma poi sostiene di poter garantire un’azione da parte di Paesi terzi che non hanno motivo di aiutare l’Europa».
La legislazione europea
Eppure, le leggi che regolamentano il fenomeno migratorio esistono. O, quantomeno, ne esistono alcuni capisaldi, che dovrebbero costituire il punto fermo per la trattazione del fenomeno a livello nazionale. Per quanto riguarda il diritto di asilo, fondamentali per il diritto europeo sono il principio di non-refoulement, sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951, e il diritto all’asilo così come formulato all’art. 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. Il primo, in particolare, recita che “Nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”, a meno che questo non costituisca “per motivi seri” un “pericolo per la sicurezza del Paese in cui risiede” o “una minaccia per la collettività di detto Paese” per via di “una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave”. Insieme a questi vi sono poi tre direttive: la direttiva qualifiche (2011/95/UE), che dispone le modalità di attribuzione delle qualifiche di beneficiario di protezione internazionale o di altro genere; la direttiva sulle procedure di asilo (2013/32/UE); la direttiva sulle condizioni di accoglienza (2013/33/UE). Va ricordato, poi, il Regolamento di Dublino, il quale comprende le regole che stabiliscono le competenze in materia di domanda di protezione internazionale. In particolare, esso stabilisce quale sia lo Stato membro dell’Unione responsabile della domanda di asilo, in base alle circostanze familiari o all’ingresso irregolare nell’Ue.
Come spiega a L’Indipendente Maurizio Veglio, avvocato specializzato in diritto dell’immigrazione, il Regolamento di Dublino è stato siglato in concomitanza con la Convenzione si Schengen, la quale ha permesso la libera circolazione delle merci e dei cittadini comunitari tra i Paesi membri. «Nello specifico, Schengen non è entrata in vigore fino a che non lo è stato Dublino, allo scopo di garantire, nei confronti di cittadini di Paesi terzi, quei controlli che non vengono fatti ai cittadini dell’Unione». Non tutti gli aspetti della migrazione, tuttavia, sono regolati a livello europeo. Per alcuni, infatti, è stato ritenuto «politicamente opportuno» lasciare che fossero i singoli Stati, a propria discrezione, a regolarli. Uno di questi aspetti è proprio il numero di migranti ammessi sul proprio territorio dai singoli Stati. Per quanto riguarda, per esempio, la direttiva rimpatri, (2008/15/CE, “recante norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno è irregolare”) «ha sicuramente senso da un punto di vista tecnico e operativo, perché permette un’armonizzazione e una comunicazione tra i vari Stati rendendo le possibilità di rimpatrio più concrete. Evidentemente, politicamente c’è stata una condivisione sull’importanza di avere questa norma. Lo stesso non si può dire sulla regolamentazione degli ingressi da Paesi terzi, in quanto ogni Stato membro è libero di deciderne i criteri». Le norme eurounitarie sono volte a fornire uno standard minimo in termini di garanzie e diritti, al di sotto del quale i singoli Stati non possono andare. In materia di ingresso da Paesi terzi, un ruolo fondamentale lo giocano gli accordi di esenzione dal visto stretti da alcuni Paesi europei. L’Italia ne ha in vigore con il Brasile, con l’Argentina, con l’Ucraina e con diversi altri Stati extraeuropei, che ne beneficiano per ragioni storiche e politiche. E proprio la facilitazione nell’ottenimento dei visti per i cittadini turchi costituiva un punto centrale dell’accordo stipulato tra Unione europea e Turchia nel 2016 e fortemente criticato da diverse organizzazioni non governative e di tutela dei diritti umani, le quali sottolineavano come vi fosse una palese violazione della Convenzione del 1951 in quanto la Turchia non poteva essere considerata un Paese sicuro per i migranti, in ragione delle numerose testimonianze di violenze ai danni di questi ultimi all’interno dei campi di rifugiati – affermazioni che trovarono conferma in una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 2015. «Il visto è la chiave che apre la porta: se non c’è bisogno del visto l’accesso è semplice, ha un valore cardine» commenta Veglio. Un discorso ugualmente importante è quello sulla rilevanza dei passaporti: «Agli ultimi posti, guarda caso, vi sono tutti i Paesi i cui cittadini, per esempio, hanno camminato nel 2015 lungo la rotta balcanica verso la Germania o verso la Svezia. Tendenzialmente si tratta di tre Paesi – Siria, Afghanistan e Iraq – i quali, non a caso, sono stati interessati da situazioni di conflitto e violazioni dei diritti fondamentali».
UE: i limiti di un’istituzione ancora troppo giovane
Anche all’interno dei profili teoricamente coperti dalla legge eurounitaria, tuttavia, vi sono frequentemente frizioni e contraddizioni con le norme nazionali. «Dal punto di vista tecnico, questo è possibile perché la legge eurounitaria di regola deve essere recepita se è una direttiva, mentre è automaticamente operativa se è un regolamento. Caso classico è il regolamento di Dublino: le riforme che da anni sono in discussione alla Commissione europea vanno tutte in direzione di una progressiva chiusura e repressione nei confronti dell’immigrazione e tecnicamente puntano tutte a utilizzare lo strumento del regolamento, perché sottrae al legislatore nazionale il potere di recepire e in qualche modo alterare la norma» spiega Veglio. Nel caso in cui una norma europea confligga con quella nazionale, quest’ultima viene disapplicata in favore della prima. Questo iter, tuttavia, non sempre viene rispettato. «La pubblica amministrazione, come molti giudici, non sono inclini a questo tipo di atteggiamento, un po’ per ragioni culturali, in quanto un giudice che ha preso funzioni quando non c’erano molte istituzioni sovranazionali è meno incline ad applicarne le norme, e la protezione speciale ne è un esempio tangibile. Tanto per fare un esempio: mentre dopo l’operato del ministro Salvini durante il primo mandato di Conte la protezione speciale era un istituto residuale, nel 2020, con il cosiddetto “decreto Lamorgese”, diviene centrale e consente la regolarizzazione con carattere di continuità di persone irregolarmente soggiornanti, a patto che soddisfino determinati requisiti, recependo l’art. 8 della CEDU che tutela il diritto alla vita familiare e privata. Ma questo esisteva anche prima e doveva essere applicabile in Italia. Tuttavia, per le ragioni culturali dette prima e di strabismo nazionalista – non necessariamente politico – era molto difficile per un giudice fare questo passaggio. Sono norme che spesso vengono vissute come aliene». Inevitabilmente, vi è una quota di discrezionalità nell’applicazione delle norme che si rifà a un orientamento personale difficilmente eliminabile, oltre che una tensione tra orientamenti politici e tra interpreti. Questo è evidente al cambio delle composizioni governative e nel conseguente atteggiamento adottato di conseguenza dalle pubbliche amministrazioni. Un esempio riferito all’Italia che fece scalpore si ebbe con il primo governo Conte, con Matteo Salvini come ministro dell’Interno. Poco dopo l’insediamento del nuovo esecutivo, venne diffusa una e-mail (nella foto che vedete qui sopra) che il presidente della Commissione nazionale per il diritto di asilo inviò a quelle territoriali (organismi ministeriali istituiti dal ministero dell’Interno, quindi teoricamente indipendenti e autonome nei giudizi). Al di là del sollecito sulla risoluzione dei casi “pendenti”, sottolineare
come il dato numerico riguardo le protezioni umanitarie rilasciate fosse
“addirittura aumentato” nonostante “la direttiva del Ministro”, con seguente indicazione di “necessaria, improrogabile e doverosa modifica” lasciava a intendere molto bene quale fosse l’orientamento dell’organo volto ad esaminare le richieste di asilo.
Diritto del mare e ONG: una facile strumentalizzazione
Il diritto del mare ha una «fortissima radice sovranazionale», spiega Veglio, per evidenti questioni innanzitutto geografiche. «Esistono specialisti di diritto del mare e convenzioni che da almeno 60 anni disciplinano i rapporti tra lo Stato di bandiera e le acque territoriali in cui si trovano, le zone SAR (Search and Rescue), di soccorso e così via. Sono tendenzialmente norme rivolte alla tutela delle persone, che prevedono l’obbligo di intervenire e di assistenza fino allo sbarco nel place of safety. Basti pensare che molte delle contestazioni che sono state fatte a coloro che hanno fatto interventi di salvataggio per ipotetica violazione delle norme sul soggiorno, quindi favoreggiamento dell’ingresso illegale, sono alla fine cadute esattamente sulla base dell’obbligo di soccorso cui queste persone sono soggette nel momento in cui si trovano in mare». Sulle ONG, spiega Veglio, non vi è direttiva specifica oltre a un decalogo istituito dall’ex premier Conte. Il comportamento delle ONG è quindi soggetto da un lato alle suddette leggi del mare, dall’altro a tutte le norme penali cui si è sottoposti quando ci si trova in territorio italiano, ivi compreso il mare. «Le persone arrivate con le ONG non sono mai state la maggior parte, sono intorno al 10% degli arrivi totali. Il 90% delle persone che arriva sbarcando sulle coste meridionali lo fa con le imbarcazioni militari della Guardia di finanza, dell’esercito italiano e così via. Si strumentalizzano le ONG perché non rappresentano lo Stato». Impantanata nei propri giochi politici, l’Unione europea, istituzione – come tutte quelle che la compongono – molto giovane, non è ancora riuscita a trovare una modalità di funzionamento ottimale per regolare l’ingresso dei migranti privi di documenti provenienti da Paesi terzi. E la storia insegna che la costruzione della cosiddetta “fortezza Europa”, che innalza muri alle proprie frontiere esterne, non argina i flussi dei soggetti in arrivo, ma li canalizza verso gli interstizi e le crepe sempre nuovi che inevitabilmente si vengono a creare. Il meccanismo, che tramite strumenti quali il regolamento di Dublino esercita una grossa pressione sui Paesi di frontiera, è inevitabilmente destinato a implodere. Nonostante la discussione sulle modifiche sia aperta (si è arrivati al Dublino III, ma già è in cantiere il IV) non si è ancora riusciti (o non si ha avuto l’intenzione?) ad individuare un meccanismo che preveda di affrontare la questione in maniera equa e solidale.
[di Valeria Casolaro e Salvarore Toscano]