giovedì 21 Novembre 2024

Confini e frontiere

Ho aperto per curiosità il manualetto di “geografia moderna” pubblicato da Giacinto Marietti, Torino 1840. A proposito di migrazioni, sentite le note sui popoli dell’America: “È comune opinione che i primi abitanti dell’America venissero dall’Asia per lo stretto di Bering largo solo da 35 miglia. La gente colà è distinta in varie classi. I bianchi europei occupano il primo grado, gli americani indigeni o indiani il secondo, i mulatti cioè nati da un bianco e da una negra o viceversa tengono il terzo, e l’ultimo è dei neri schiavi trasportati dall’Africa… Parlando dei bianchi si può dire invece che sono molto intraprendenti nel commercio di grano tabacco e cotone che con ingegnosa speculazione sanno prendere e trasportare ove trovino maggior guadagno”.

Sono sempre in gioco due forze antitetiche, una centripeta etnocentrica, in cui prevale il sistema di valori dominante, che punta sulla difensiva e che però, nel caso delle conquiste e dei colonialismo è in grado di respingere ai bordi come stranieri proprio le popolazioni autoctone. Rigoberta Menchú, nel suo libro sui Maya e il mondo (Giunti 1997), reclama che l’ONU debba riconoscere l’esistenza dei popoli indigeni, i loro diritti. E non solo ovviamente di quelli americani: “Anche i popoli del Pacifico, dell’Australia e della Nuova Zelanda sono nostri fratelli, perché hanno subito la colonizzazione, sebbene in epoca più recente della nostra, e appartengono anch’essi a culture di carattere millenario, dalle profonde radici”(p.216). Queste forze centripete, identitarie, dei popoli originari ma anche dei conquistatori e colonizzatori, puntano sulla definizione dei confini. In questo caso prevale il concetto di minaccia, sia a un ordine arcaico, di origini remote, sia ai sovrani confini nazionali, magari ottenuti a scapito della gente del luogo.

L’altra forza è invece quella centrifuga, che ha messo in moto lungo i millenni i popoli, sia quelli conquistatori, sia quelli nomadi, sia quelli che sfuggivano a persecuzioni. Una forza simile a quella che più tardi ha generato e soddisfatto il bisogno sempre crescente di comunicazione, sino a farcene temere l’oppressione e la distruttività. Ma centrifughe, migranti sono anche le correnti di civilizzazione, pensiamo fra tutte alla nostra matrice indoeuropea. Il grande linguista Emile Benveniste così scriveva: “Il miracolo, visto che le fasi di queste migrazioni ci restano sconosciute, è che noi possiamo designare con sicurezza i popoli che hanno fatto parte della comunità iniziale e riconoscerli, a esclusione di tutti gli altri, come indoeuropei. La ragione va cercata nella lingua e soltanto nella lingua” (Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi 1976, p. 3). Le forze centrifughe delle migrazioni agiscono dunque anche sul terreno linguistico, sulla
fondazione dei valori persistenti, tramandati, ereditati e posti in discussione, su quelle che poi chiamiamo tradizioni.

Analogamente, nei tempi moderni, agiscono le esigenze della mobilità. Questa ha a che fare con l’idea di frontiera, di negoziazione, di superamento dell’ignoto. “La frontiera – osserva Marc Augé – ha sempre una dimensione temporale, è la forma dell’avvenire e, forse, della speranza” (Per una antropologia della mobilità, Jaca Book 2015, p. 15). Facciamo davvero i conti, come sostiene Augé, con il divario tra una globalità senza limitazioni e la realtà di un pianeta frammentato, dove sarebbe necessario muoversi fisicamente per conoscerlo e per conoscersi, senza ridurre tutto a messaggi e a immagini. La mobilità, la migrazione possono essere opportunità o condanne, generare aperture o blocchi, circolazione di linguaggi o incomprensione. Franco Ferrarotti osservava che tutto si può sopportare e vincere se si sa dove si è diretti, o come Ulisse o come Abramo, a seconda degli orizzonti, dei compiti e delle responsabilità.

E allora vedremo in gioco i confini, con le loro determinazioni rigide e insuperabili o al contrario le frontiere che continuamente si spostano e si moltiplicano perché attinenti alla conoscenza, alle curiosità, alle nuove visioni, ai bisogni. Ferrarotti parlava dello speciale incontro ad Emmaus con Gesù, narrato dall’evangelista Luca con un piglio perfino giornalistico. Ancora una volta, se vogliamo crederlo o ammetterlo, “il mondo sarà salvato, se sarà salvato, dall’apporto dello straniero” (Partire, tornare, Donzelli 1999, p. 148). La migrazione è legata al cambiamento, alle variazioni di prospettiva, implica, anzi impone, strumenti sempre nuovi di interpretazione.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

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