I social media hanno causato dei veri e propri danni alla salute mentale dei ragazzi, motivo per cui le società alle loro spalle devono essere ritenute responsabili: è questa la tesi sostenuta dalle scuole pubbliche della città di Seattle, che lo scorso 6 gennaio hanno intentato una causa contro i giganti della tecnologia proprietari di TikTok, Instagram, Facebook, Snapchat e YouTube. La cosiddetta “crisi della salute mentale” dei giovani americani – alle prese con disturbi quali l’ansia, la depressione e l’autolesionismo – si sarebbe nello specifico verificata a causa del modus operandi di tali società, che con l’obiettivo di far crescere le proprie piattaforme avrebbero attuato tecniche non di certo innocue per la psiche dei ragazzi.
La crescita dei social media verificatasi nell’ultimo decennio, infatti, sarebbe conseguente alle scelte fatte dalle aziende, le quali secondo le scuole pubbliche si sarebbero rifatte a metodi che “sfruttano la psicologia e la neurofisiologia” degli utenti con il fine di fargli “trascorrere sempre più tempo sulle loro piattaforme”: un problema a quanto pare importante per i ragazzi, essendo tali tecniche “particolarmente efficaci e dannose per il pubblico giovanile”. Non sarà un caso, quindi, il fatto che le scuole abbiano deciso di agire attraverso vie legali con l’intento di porre un argine ad un fenomeno che sembra essere notevolmente in aumento. Secondo coloro che hanno intentato la causa, infatti, “dal 2009 al 2019 c’è stato un aumento in media del 30%” del numero di studenti delle scuole pubbliche di Seattle che “hanno riferito di sentirsi così tristi o senza speranza quasi ogni giorno per due settimane o più di fila che hanno smesso di svolgere alcune attività abituali”.
Non c’è da meravigliarsi, dunque, se le scuole pubbliche di Seattle affermano che “tutto ciò influisce direttamente sulla capacità delle stesse di adempiere alla propria missione educativa”, con gli studenti aventi problemi psichici che ad esempio “ottengono risultati peggiori a scuola” ed “è meno probabile che la frequentino”. È per questi motivi, quindi, che le scuole chiedono ai giganti della tecnologia non di eliminare i social media, ma di “cambiare il modo in cui operano” assumendosi “la responsabilità dei danni causati dalle loro pratiche commerciali”. Del resto la sezione 230 del Communications Decency Act – che tutela i fornitori di servizi online – secondo coloro che hanno intentato la causa non protegge le società in questione, che sarebbero appunto responsabili di varie condotte quali la promozione di contenuti dannosi per i giovani. Con la causa intentata, dunque, si punta nello specifico da un lato a “fermare le pratiche intenzionali e dannose delle piattaforme di social media rivolte ai giovani” e dall’altro ad ottenere “le risorse aggiuntive necessarie per soddisfare i maggiori bisogni di salute mentale degli studenti delle scuole pubbliche di Seattle, causati degli impatti negativi dell’uso dei social media”.
A prescindere dal modo in cui la vicenda andrà a finire, però, le Big Tech sembrano essere consapevoli di dover apportare alcuni miglioramenti ai loro servizi. Ad esempio Snapchat – secondo quanto riportato dall’agenzia di stampa Reuters – non solo ha precisato che «il benessere della sua comunità rappresenta la sua massima priorità» ma ha anche fatto sapere di star lavorando «a stretto contatto con molte organizzazioni per la salute mentale con il fine di fornire strumenti e risorse in-app per gli utenti». Inoltre tramite una dichiarazione rilasciata lunedì alla CNN, il responsabile globale della sicurezza di Meta, Antigone Davis, pur sottolineando che già vi sono diversi strumenti in grado di tutelare gli adolescenti ha affermato che l’azienda continuerà ad «investire risorse per garantire che i suoi giovani utenti siano al sicuro online». Evidentemente, dunque, i giovani che utilizzano i social media non sono del tutto esenti da rischi.
[di Raffaele De Luca]
Qualche segno di risveglio.
In Italia invece Google viene promosso come strumento educativo.