La prossima Conferenza delle Parti sul clima (COP28) avrà luogo negli Emirati Arabi Uniti e sarà presieduta dal capo del colosso petrolifero della nazione. Ai più potrebbe sembrare una bufala, tuttavia, l’informazione è tanto vera quanto contradditoria. Il sultano Ahmed Al Jaber, amministratore delegato del colosso fossile Abu Dhabi national oil company, paradossalmente, avrà infatti il compito di definire l’agenda della principale conferenza internazionale sul clima rivestendo un ruolo centrale nei negoziati. Trattative finalizzate a raggiungere, in teoria, un consenso su punti come la riduzione delle emissioni di CO2 e l’abbandono progressivo dei combustibili fossili. L’ennesima assurdità firmata Nazioni Unite che mina a quel poco di credibilità che rimaneva a detti vertici climatici. Un «oltraggioso conflitto di interessi – commenta Harjeet Singh, capo del Climate Action Network, la rete di oltre 1.800 ONG ambientaliste di 130 Paesi – la continua minaccia dei lobbisti dei combustibili fossili ai colloqui sul clima delle Nazioni Unite ha costantemente indebolito i risultati della conferenza sul clima, ma questo lo porta a un altro livello, pericoloso e senza precedenti».
Una decisione che ha lasciato di stucco scienziati ed attivisti, la quale fa seguito alla già controversa scelta della sede della diciottesima Conferenza delle Parti sul Clima. Come può una nazione economicamente vincolata al settore dei combustibili fossili, gli Emirati Arabi Uniti, essere imparziale su tematiche quali l’abbondono degli stessi? Sono in molti a chiederselo. D’altra parte, le contraddizioni sono di casa alle COP, così come lo è già l’influenza dei delegati dell’una o l’altra industria degli idrocarburi. Basti pensare che al vertice delle Nazioni Unite sul clima di Sharm-el-Sheikh (COP27), il numero di delegati legati ai combustibili fossili è aumentato del 25% rispetto alla COP precedente di Glasgow. A rivelarlo, un’analisi resa nota dalla BBC e realizzata dall’organizzazione Global Witness. L’indagine ha scoperto che più di 600 persone presenti ai negoziati sul clima in Egitto erano in qualche modo legate all’industria del petrolio e del gas, un numero superiore a quello delle delegazioni dei 10 Paesi a maggiore impatto climatico.
Alla prossima COP, quindi, il volere delle industrie del petrolio e del gas potrebbe avere invece un ruolo diretto, nonché condizionare i colloqui alla luce del sole. Il sultano Al-Jaber, che è anche ministro dell’Industria e delle Tecnologie negli Emirati Arabi Uniti, riguardo le priorità nella lotta alla crisi climatica, ha infatti una posizione chiara: a suo avviso, la transizione ecologica dovrebbe essere effettuata «con pragmatismo e prudenza» in quanto «non possiamo semplicemente staccare la spina al sistema di oggi». Così, giusto per citarne una, il capo del colosso fossile medio-orientale propone addirittura di aumentare gli investimenti nelle fonti fossili di 600 miliardi di dollari all’anno. Sebbene il sultano sia anche presidente di Masdar, società specializzata nello sviluppo di energie rinnovabili, la sostanza non cambia. La scienza è oggi pienamente concorde sul ruolo delle emissioni fossili nell’accelerazione del riscaldamento globale in atto. Le industrie petrolifere, dal canto loro, hanno sempre negato le evidenze e tentato di alimentare scetticismi sulla questione climatica arruolando scienziati ed enti affinché questi manipolassero l’opinione pubblica. Una strategia che ha funzionato per decenni e che solo ora inizia a vacillare. Il risultato? L’industria fossile assume la guida dei negoziati climatici.
[di Simone Valeri]