Parlare di carcere. Per chi, sia pure per pochi mesi, l’ha subito, si riapre come una ferita, il senso di spaesamento che provi varcando i cancelli e ti si risveglia dentro nei momenti bui, anche dopo, quando torni a percorrere le libere vie del mondo.
Da subito brucia l’offesa alla tua dignità di persona: la sosta solitaria in uno spazio angusto, senza finestre, il sequestro di tutti i tuoi effetti personali, le foto segnaletiche, le impronte digitali. Poi la perquisizione corporale: la nudità a cui ti costringono, magari in una stanza gelida come era capitato a me quel trenta dicembre di tre anni fa, ti precipita nella condizione di oggetto senza alcun valore, roba da discarica, la discarica sociale in cui il sistema confina i più poveri e riduce al silenzio chi non vuole adeguarsi.
Povere erano le mie compagne di detenzione, uccelli di passo venuti da lontano e incappati nella rete della prostituzione, nella schiavitù della tossicodipendenza o, semplicemente, cadute nelle mani dei vigilantes mentre cercavano di procurarsi cibo ai supermarket. Molte avevano famiglie lontane, di cui rappresentavano l’unica risorsa: per loro avevano affrontato fatiche e naufragi, umiliazioni e sfruttamento, per mandare a casa quella rimessa mensile di denaro che dava di che campare ai fratelli più piccoli. Altre erano rom o sinti e mantenevano in carcere quei legami di affinità parentale che le rendeva comunità nella comunità. Quante storie! Alcune raccontate, altre intuite. Storie di soprusi, di dolore, a volte di ribellione, ma anche speranze, per dopo, quando si uscirà, la voglia di libertà, di ritrovare spazi aperti, orizzonti che non siano quelli ristretti delle mura carcerarie. Ricordare è un antidoto al vuoto del carcere: se si ha qualche bel ricordo, ti fa compagnia e ti dice che la galera non è l’unico mondo possibile e che fuori qualcuno o qualcosa ti aspetta.
Mi torna in mente F., la mia prima compagna di cella. Una piccola donna di mezz’età, una famiglia che non si curava di lei. Il suo unico grande affetto era il suo cagnolino, per il quale provava preoccupazione e nostalgia. Alla sezione “nuove giunte”, in una delle celle adibite ad alta sorveglianza e ad isolamento psichiatrico, stava rinchiusa L.
Quando andavo alla rotonda per il ritiro della posta, la trovavo affacciata alle sbarre. A volte, eludendo i divieti, mi riusciva di fermarmi qualche istante con lei e la sentivo continuare ad alta voce il racconto della sua vita fuori, in una Torino che nei suoi ricordi diventava il paese delle meraviglie. Il viaggio aveva come meta fissa il mercato del Balon con la magia delle vecchie cose e lo splendore delle sciarpe e dei vestiti etnici, dei fascinosi monili d’oriente. L. raccontava con quel suo sguardo di fanciulla improvvisamente luminoso, rapita altrove, via da quella cella scrostata, dal metadone, dalle crisi di panico, dalla rigida indifferenza delle sorveglianti, dalla disumanità di un potere che tiene in catene chi avrebbe invece bisogno di aria libera e di amore. Il carcere è pieno di malati, anzi produce esso stesso malattia. Tra quelle mura ho trovato paraplegici in sedia a rotelle, malati di tumore, affetti da turbe psichiche, da tossicodipendenza. Il carcere genera malattia mentale, assuefazione agli psicofarmaci che vengono distribuiti a dismisura contro l’insonnia e il dolore, conseguenze inevitabili del vivere rinchiusi. Gli effetti sono devastanti, a livello fisico e mentale. Ho visto ragazze poco più che adolescenti completamente sdentate, per le quali era diventato impossibile nutrirsi sufficientemente, altre arrese all’inedia e all’immobilità. Qualcuna delle mie compagne era invecchiata tra quelle mura, come D. La rivedo, quel suo fisico minuto di bambina innaturalmente canuta. D. era ipovedente, condannata alla cecità per una malattia progressiva e aggravata dalla deprivazione sensoriale del vivere in spazi ristretti. Era rimasta sola al mondo, campava del misero cibo del carrello e dell’aiuto delle altre detenute. Dopo tanti anni, avrebbe avuto i requisiti per usufruire di misure alternative, ma nessuno e nulla l’aspettava fuori, né amici, né parenti né casa e neppure un supporto legale che presentasse istanza a suo favore.
D. si era rassegnata. Viveva rincantucciata nella sua branda, aveva rinunciato anche alla misera ora d’aria che viene concessa ai detenuti, negli squallidi cortili murati e vigilati dalle telecamere. A me voleva bene; aveva preso a frequentare la mia cella per condividere un caffè. A volte scendevamo nella piccola biblioteca del femminile. Quella breve ora trascorsa tra i libri per me era un ritorno alla mia vita fuori, per lei uno stare insieme. Non riusciva più a decifrare lo scritto, ma sfogliava volumi e riviste in cerca di immagini; a volte mi chiedeva timidamente di leggerle le didascalie. Tante cose potrei raccontare sulla non-esistenza che si consuma in quella città blindata, insieme minacciosa e decrepita: il tempo che non passa mai; gli spazi angusti e sovraffollati, in cui tutto è ferro e cemento, gelidi d’inverno e torridi d’estate, senza un filo d’erba, senza un fiore, fosse pure il polveroso tarassaco delle periferie; la sporcizia atavica non sconfitta neppure dalle cure solerti delle detenute; le inferriate, i blindi, le chiavi sferraglianti; il passo inquietante delle secondine lungo i corridoi, la loro rigida indifferenza che può diventare prepotenza aperta; le regole usate ad arbitrio; i giorni di festa, in cui, sospeso ogni contatto col mondo fuori, vietate le visite dei parenti e le attività di studio o di laboratorio, l’orologio della vita per chi è recluso si ferma del tutto. Voglio invece dire della resistenza collettiva alla disumanizzazione del carcere, della solidarietà tra ultimi che si fa sostegno vicendevole contro i soprusi della legge e di chi è preposto ad applicarla. È il ruvido abbraccio nei momenti di depressione, la battuta scherzosa quando tutto si fa buio, la condivisione del sopravvitto con chi non ha niente. È il rifiuto alla delazione.
Ho vissuto da reclusa i primi mesi della pandemia, quelli più critici e angosciosi. Aboliti i colloqui coi parenti, sospese le attività con volontari esterni, vietato ricevere pacchi e corrispondenza. I rapporti col mondo fuori consistevano in due telefonate settimanali alla famiglia e nei notiziari televisivi che ci vomitavano continuamente addosso cascate di immagini funeste. Noi ci trovammo allo sbaraglio, rinchiuse nelle sezioni sovraffollate, senza mezzi di prevenzione né possibilità di una sanificazione efficace, prive di notizie sulla reale situazione interna, con l’angoscia per i nostri cari lontani. Le porte del carcere non si aprivano se non per far entrare nuovi reclusi, e ne entravano ogni notte, sempre più precari e poveri. Abbiamo resistito grazie all’aiuto reciproco: caffè, sigarette, notizie buone da casa, tutto veniva messo in comune. Per ovviare al blocco dei pacchi viveri inviati dalle famiglie, si metteva in comune il sopravvitto acquistato a prezzi maggiorati tramite il carcere. Alle istanze di misure umanitarie che si levarono dalle prigioni di tutt’Italia le istituzioni risposero con una repressione che arrivò a tacitare nel sangue la voce di chi chiedeva amnistia e indulto o almeno la possibilità di misure domiciliari per i soggetti più deboli o a fine pena. Quanto al mondo fuori, che i divieti di circolazione avevano improvvisamente costretto nel chiuso delle abitazioni, mentre scopriva dai balconi la solidarietà di vicinato, si mostrava insensibile se non apertamente ostile ad ogni sia pur minima clemenza per l’umanità incarcerata. Infine sono uscita, in piena pandemia, in una città deserta. Insieme agli abbracci delle mie compagne mi sono portata appresso la rabbia della detenzione, e la consapevolezza che anche la libertà è collettiva o non è.
La nostra Costituzione stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. È abolita la pena di morte.” Ma l’istituzione penitenziaria è di per sé disumana ed inutile ai fini della rieducazione: repressiva in quanto erogatrice di pena; diseducativa, perché la coercizione e l’arbitrio sono di per sé la negazione di una società buona e giusta. E il 41 bis non è forse tortura? Non è morte lenta l’ergastolo ostativo? Quale giustificazione di utilità sociale hanno i CPR? Quale futuro si insegna ai ragazzi rinchiusi nelle carceri minorili, ai bambini prigionieri con le loro madri?
Il fatto che il carcere generi malattia, morte, criminalità non è una stortura del sistema, è il sistema. Il carcere non va abbellito, va abolito. Esiste una regola non scritta, che nacque dalle prime comunità cristiane, divenne pratica di vita delle collettività eretiche antagoniste braccate dall’inquisizione ed istanza di liberazione per il comunismo delle origini: “da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo i suoi bisogni”. È questa l’alternativa al carcere, la giustizia sociale. Semplice, bella, capace di abbracciare con senso di responsabilità ed amore ogni essere vivente.
[di Nicoletta Dosio – Oltre ad essere da sempre attiva in numerose lotte
sociali e politiche sul territorio piemontese, Nicoletta Dosio è uno dei volti storici del Movimento No TAV. Condannata ai domiciliari per aver partecipato a una manifestazione pacifica del Movimento, ma rifiutandosi di sottostarvi e divenire così “carceriera di sé stessa”, Nicoletta è stata imputata di almeno 130 evasioni, che le sono valse la condanna a oltre un anno di carcere presso il penitenziario di Torino]
Mi spiace per l’accaduto. Nell’articolo si accenna al 41bis. Il 41bis esiste per un chiarissimo e giustificatissimo motivo, e finché resta il pericolo di comunicazione dei malviventi per coordinamento di attività esterne, deve rimanere. Anche a vita.
Grande donna,grande esempio da seguire,tanta stima
Grazie Nicoletta e grazie a voi che date voce a queste belle persone. Saranno le fondamenta di una nuova società. Adesso assistiamo all’implosione e alla fine dell’Occidente, poi ricostruiremo… Forza e coraggio.